Lana del Ray canta Young and beautiful nella mia camera, mentre io sento ancora pesare sulla mia pelle lo sguardo di Jay Gatsby: chiudo leggermente gli occhi, quasi accecati dalla luce verde e intermittente del pontile, e immagino il suo sorriso.
Qualche mese fa, dopo aver chiuso il libro più famoso di Fitzgerald, continuavo a mordicchiarmi le labbra, a toccarmi il collo, tentando di sbloccarlo, perché la storia raccontata da Nick Carraway non mi lasciava andare via: nel corso della lettura, non provavo un grande trasporto, non riuscivo a farmi trascinare come avrei voluto, forse perché le mie aspettative sull’opera erano state montate, assumendo le sembianze di un gigantesco zucchero filato. Eppure, arrivata a pagina 261, ho alzato gli occhi e non ho sentito nulla. Assolutamente nulla. Ma, come un sogno che non ti abbandona il giorno dopo della sua comparsa, Il Grande Gatsby aleggia nella mente del lettore, posizionandolo ogni volta su un dubbio diverso, su una frase lasciata a metà, su quell’amore incorruttibile di un personaggio così presente, tanto vicino da poterlo toccare: come se le dita continuassero a sfiorarsi tra loro, sperando di trovare una traccia di lui.
Il romanzo, ambientato nella New York del 1922, vede la luce nel 1925, raccontando gli anni in cui Fitzgerald si trovava in un abisso di alcol e perdita di sé: è il disegno di una generazione avviluppata nei piaceri e nelle contraddizioni dell’America dell’età del jazz e dei sogni più grandi, infranti dagli stessi sognatori, più innamorati della dissoluzione che della tenacia. Non sentirò l’impulso di narrare la trama di questo romanzo, composto da luci e ombre, frasi esplicite alternate a punti volutamente nascosti e posti lì dall’autore, proprio affinché vengano colmati dal lettore, nel corso della sua vita; dirò soltanto che è la storia di Jay Gatsby, ricchissimo gentiluomo dalla storia più che misteriosa, padrone di una casa lussuosa di West Egg ossia Kings Point, località delle costa settentrionale di Long Island, e innamorato di una donna. Basta, non dirò altro, rischierei di annoiare chi conosce il libro e di svelare troppo a chi ha intenzione di leggerlo o di guardare il film. Inoltre, la forza del romanzo di Fitzgerald è concentrata nel suo essere così, semplice, eppure così sfuggente, tanto da non poter spiegare in che modo agisce sul lettore.
Ma veniamo proprio alla trasposizione cinematografica di Baz Luhrmann, regista di Romeo+Giulietta, Moulin Rouge e Australia. Il 16 maggio alle ore 21 ero seduta sulla poltrona rossa del cinema, con aspettative più alte di quelle che tenevo in mano prima di immergermi nella lettura del libro, e la mia paura di essere delusa era elevata al quadrato rispetto ad allora. A mezzanotte continuavo a mordermi le labbra, a massaggiarmi il collo, tentando di sbloccarlo, perché sentivo ancora sulla mia pelle tutta la pellicola: arrotolata attorno alle dita, saliva per le braccia, toccandomi il collo, mi attraversava il petto, per cingermi il bacino e accarezzarmi le gambe, fino a legarsi con un nodo alle caviglie. Il tutto al ritmo di Together degli XX. Baz Luhrmann decide di mantenere lo stesso narratore del libro di Fitzgerald, ossia Nick Carraway, nel film chiuso in un centro psichiatrico ed intento a liberarsi dei ricordi che non gli permettono di guarire, cornice che ci permette di conoscere la storia di Gatsby e di tutto quello che accadde nell’estate del 1922 nella sua villa di West Egg. Si parte, così, per un viaggio di 142 minuti nella mente di un regista che ha sicuramente amato il Grande Gatsby. A mio avviso, Luhrmann ha deciso di prendere il romanzo e seguire per filo e per segno tutto ciò che accade, ma oltre a ciò ha raccolto il frutto dell’immaginazione personale di tutti i lettori del libro per farla esplodere sul grande schermo, e il risultato non poteva che permettere ai miei occhi di brillare. Ho vissuto tutte le scene del libro che erano rimaste impresse nella mia mente come fotografie: le tende sollevate dal vento nel salone di Daisy, come bandiere pallide, e le due donne sul sofa con“gonne fluttuanti e drappeggiate come se fossero appena ritornate da un breve volo attorno alla casa”; le incredibili feste date da Gatsby, da cui ogni genere di persona passava, pur di trascorrere una serata chic, dissoluta e assolutamente sfrenata; le macchine scintillanti, i vestiti preziosi, il jazz, l’enorme biblioteca abitata dal signore con gli occhiali, un po’ brillo e ammattito. E poi, l’indimenticabile sorriso di Jay Gatsby, “uno di quei sorrisi rari, dotati di un eterno incoraggiamento, che si incontrano quattro o cinque volte nella vita”: grazie a Leonardo di Caprio ho visto esattamente quel sorriso, e non più solo nella mia immaginazione. Ho visto Gatsby sul pontile mentre cerca di afferrare la luce verde posta di fronte alla casa di Daisy, la donna che ama da cinque anni, ho visto quella luce presentarsi a momenti alterni, come l’amore di Daisy; ho visto l’amore di Gatsby, invece, passare dall’idealizzazione alla realtà e sperare di poter continuare ad adorare solo quella luce, per sempre. Ho visto le sue camicie, di tutti i colori e i tessuti conosciuti, svolazzare sulla testa di Daisy, in una festa orgiastica di sfumature e risate, terminante in una lacrima. Ho visto Nick Carraway alzare gli occhi su una casa imponente, per poi abbassarli in silenzio sul suo vicino, Gatsby, provando compassione per lui, per la forza con cui disperatamente afferra il passato per permettergli di squarciare il presente. Ho visto Daisy e suo marito Tom che “sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto”. Ho visto un uomo ricco, famoso, sicuro di sé e gentile, imbarazzarsi nel chiedere un favore ad un amico, calpestare la sua costruita compostezza, spegnere tutte le luci della sua reggia e nascondersi nell’ombra pur di godere di un momento di estasi d’amore, diluito nella nebbia che lo separa dal suo sogno, da lei. Ho visto, o sarebbe meglio dire che ho rivisto tutto quello che mi accompagna da quando ho finito di leggere il libro. La grandezza del film sta nel poter dire di aver posato nuovamente gli occhi su quelle scene che un tempo si erano formate sullo schermo della nostra mente solo grazie alle parole dell’autore, risultato ottenuto soprattutto grazie all’ausilio dei dialoghi e dei monologhi originali, forse fra i più belli che siano stati scritti.
Baz Lurhman ha deciso di esasperare ogni singolo momento del libro di Fitzgerald, mantenendo gli arzigogolati ghirigori dell’anima di ogni personaggio, e regalando al lettore/spettatore il ricordo di ogni minima sensazione provata alla lettura di ogni riga di ogni pagina di ogni capitolo del libro. Il romanzo era già un film in sé e il regista non ha fatto altro che liberare la sua forza, puntando sull’idea che la letteratura è fantasia, ingegno, immaginazione e memoria: tutti emblemi di personale singolarità, che sullo schermo è diventata molteplicità: un mosaico di tasselli, ognuno di essi portato da uno spettatore diverso al momento della consegna del biglietto all’ingresso del cinema. Allora si avrà la musica hip hop accostata al jazz e all’elettronica, perché il ragazzo il rapper convinto seduto in quinta fila avrebbe scelto proprio quelle canzoni per descrivere Gatsby; si ammireranno i gioielli di Tiffany perché la biondina, accompagnata dal suo fidanzato che non sa neanche che forma abbia un libro, anela da anni a ricevere un paio di orecchini nascosto in una scatolina celeste con fiocco bianco, proprio come quelli indossati da Daisy; allora si strabuzzano gli occhi di fronte ad una festa così grandiosa come quella data nella villa del grande Gatsby perche tutti, almeno una volta nella vita, tutti hanno desiderato partecipare ad una pazzia collettiva come quella, non prendiamoci in giro (soprattutto non prendiamoci troppo sul serio). Ho visto anche qualcosa che non mi aspettavo, come una regia a volte trascendente in uno stile fumettoso, quasi cartoon, più adatta ai film sui supereroi, se volessimo fare un confronto; eppure questa scelta non ha danneggiato l’opera, andando quasi a suggerire l’intento del regista di sottolineare marcatamente quella nuvola indefinita di immagini in cui la mente del lettore traspone le descrizioni di un autore, scolpendo una personalissima versione di quella data scena o fisionomia. O magari, Luhrman voleva semplicemente prendere in giro qualcuno o un certo modo di fare film. A volte non è necessario chiedersi il perché, basta godersi il come. Purtroppo, però, non ho rivisto Nick Carraway, che avrebbe dovuto rappresentare il contraltare di Gatsby, essendo descritto nel libro come una persona a modo, carica di senso di moralità e valori, misterioso anch’egli in quanto abbastanza indifferente alla sfrenatezza newyorkese dell’epoca, ma che, purtroppo, nel film perde di spessore, diventando un semplice narratore dall’aria ridicola, trascinato dagli eventi, rimanendo tuttavia, come nel romanzo, affascinato dalla figura del suo vicino.
Nonostante questa defiance, abbastanza importante, Luhrmann non sottrae né aggiunge nulla al libro di Fitzgerald, perché esso è scritto nero su bianco, è fatto di descrizioni scarne ma incredibilmente incisive, come mai ne ho lette nella vita; il regista ha colto questa forza espressiva, affidandogli una colonna sonora assolutamente incoerente e per questo strabiliante, passando dal bianco e nero al colore, a quelle innumerevoli tonalità che compongono l’eruttiva immaginazione che è in nostro possesso ma che spesso ha paura di esplodere: la meraviglia della letteratura sta tutta qui, nel potere di passare dalla dimensione bidimensionale della carta a quella tridimensionale che gli regalano gli occhi e il cuore di chi la ama.
Luhrmann, così, diventa Gatsby, poiché lo asseconda nella creazione di un mondo incantevole, esistente solo nelle loro parole e mai nella realtà, e tu caro lettore/spettatore non puoi altro che assumere il ruolo di Nick Carraway , adorando un personaggio come Jay Gatsby e diventando suo complice nella costruzione di una realtà innalzata, come la bellissima casa di West Egg, in bilico sui polpastrelli di Franzis Scott Fitzgerald, alla luce di un faro verde.
Glenda Gurrado
TITOLO: Il grande Gatsby
REGIA: Baz Luhrmann
ANNO: 2013
SOGGETTO: Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerald
SCENEGGIATURA . Baz Luhrmann, Craig Pearce