Non è in fondo verosimile che l’incontro tra la “logica” industriale del profitto e la fisiologica mancanza di spina dorsale di questa “plebe massificata”, ha prodotto quale dogma a cui volersi assoggettare l’utilità: unico paradigma in grado di valutare la bontà delle persone, sola “certezza” capace di misurarne calvinisticamente la personalità (è in fondo il pensiero di Calvino in salsa Max Weber, quello secondo cui il favore della grazia di Dio si manifesta anzitutto grazie al successo – alias profitto – incarnato da quello “spirito del capitalismo” ormai mortalmente instillatosi nella mentalità degli uomini). In un sistema che richiede la crescente specializzazione delle qualifiche, infatti, noi non veniamo più identificati in quanto uomini, ma lo siamo esclusivamente in base all’utilizzo che possiamo avere per gli altri e viceversa, per dirla col Magris che parafrasa Musil: “l’uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo”. Tale atteggiamento, per amor di verità, non è inedito: molti tra i cognomi europei, ed italiani nella fattispecie, manifestano uno status lavorativo. Si pensi, ad esempio, ai Fornari, ai Marangoni, ai Fabbri, ecc… Ma la remota esigenza di quel mondo premoderno, semplice e spesso agricolo, quella necessità di nominare per identificarsi in quanto persone, oggi non appartiene più alle esigenze dell’uomo “liquido” contemporaneo. Laddove infatti l’individuo premoderno sentiva il bisogno di fornirsi un’identità applicando quest’urgenza alla primaria attività che finiva, fisiologicamente, per sostanziarne la personalità e il carattere, oggi, l’uomo contemporaneo viene qualificato dalla propria professione solo per dimostrare quanto può essere utile per gli altri. (nell’ancien règime non esistevano ascensori sociali, né tantomeno la vasta gamma di chance che possiamo vantare oggi, eppure, che l’homo faber premoderno si staccasse malvolentieri dalla propria “opera”, è qualcosa più di una macchietta da ridicolizzare. Il prodotto di quell’artigiano era veramente un prolungamento di sé stesso. Oggi, al contrario, diventa mezzo, reddito, potere d’acquisto, dimostrazione di “pubblica utilità”. Dal lavoro che personifica l’individuo a quello che lo spersonifica alienandolo!). Volgarmente proiettato nel “bene comune” del “noi”, trova così che il riconoscimento della propria utilità sia l’unico volano per poter "contare" ancora qualcosa (è strano, talvolta, il potere del logos: "conta" solo ciò che può essere misurato, controllato, giudicato...il resto non esiste. Non conta, appunto). Quell’uomo dimezzato sembra così acquistare una personalità solo dall’incontro trasversale cogli interessi utilitari della massa: sente il bisogno di essere mezzo, avverte la necessità che qualcuno lo utilizzi. E che gli dica: "bravo"!
Oggi infatti, slegato dal suo “saper fare” da sé, da ogni tipo di padronanza e di autonomia, circonfuso com’è all’interno di un mondo globale senza limite alcuno (da qui l'incapacità di sviluppare autentici rapporti umani, di farsi realmente apprezzare per ciò che è e che fa), non sa più cos’è. Ha perduto irrimediabilmente il suo ruolo, fosse anche quello pratico del “saper fare” qualcosa. E un po’ di tutto, si adegua, anche quando è "specializzato" lo è sempre nella subordinazione, ché egli dipende da altri gregari suoi pari: svolazza di qua e di là, dal mercato del lavoro al banco del sentimento ad interesse variabile, senza trovare mai un stabilità soddisfacente. Egli si manca costantemente! Eppure Nietzsche, lo anticipava qualche secolo fa: “plebe, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì é tutto mescolato alla rinfusa, santo e ladrone”. Senza la massa dei nostri pari siamo quindi solo anonimi specchi in cui l’altro può riflettere i propri bisogni. Egualmente inseriti in un nulla che ci sostanzia, abbiamo preferito nasconderci e pascere nel limbo di una comune appartenenza alla “plebaglia”, anziché riscoprirci autonomi attori del nostro agire.