Le condizioni economiche dell’Area euro si stanno rivelando molto peggiori di quel che era stato previsto pochi mesi fa. Le misure finora adottate dalla BCE e dai governi, alla luce dell’andamento delle variabili reali e della reazione dei mercati finanziari (con una stretta interrelazione in entrambe le direzioni tra le prime e i secondi), si sono dimostrate del tutto inadeguate.
In particolare, le politiche di bilancio improntate al solo rigore, invece di stabilizzare il ciclo, stanno facendo avvitare su se stessa l’intera economia europea. Ormai non c’è più nessun economista che creda agli effetti espansivi non-keynesiani dei tagli ai bilanci pubblici attuati simultaneamente in più paesi fortemente integrati tra loro, come sono quelli dell’UE e in particolare dell’Eurozona.
L’esperimento in atto nell’Area euro di restrizione dei bilanci pubblici in presenza di un’ampia capacità produttiva inutilizzata dimostra, al rovescio, la validità delle prescrizioni contenute in ogni manuale di politica economica. Quando c’è ampia capacità produttiva inutilizzata, pari in media al 2,6% del PIL nell’Eurozona (e addirittura 2,9% in Italia, 3,7% nei Paesi Bassi, 4,4% in Spagna, 4,6% in Portogallo e 10,7% in Grecia), le politiche restrittive abbassano il PIL effettivo e distruggono base produttiva, quindi il PIL potenziale, minando la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo.
Chi ha scritto queste righe che, tra l’altro, prendono in giro Alesina e Giavazzi e la loro “austerità espansiva”? Krugman? Stiglitz? No. Allora forse le ha scritte qualche italiano… Guido Rossi sul Sole? No. Brancaccio sul Manifesto? Neanche. Piga sul suo blog? Acqua… Allora è De Cecco? Neppure. Paolo Leon? Niente da fare.
No, le ha scritte il Centro Studi di Confindustria. Come negli anni ’40, tra gli industriali, qualche ragionamento di buon senso sporadicamente appare. Ma, ci chiediamo, perché nei mesi scorsi Confindustria ha appoggiato e anzi richiesto riforme come quella del mercato del lavoro, che nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con la crescita? Perché negli anni passati si è accodata alla solita favoletta “meno stato più mercato”, chiedendo in continuazione privatizzazioni e deregulation? E perché continua a fare affidamento sulle cosiddette “riforme strutturali” per “aumentare la competitività” mentre, ad esempio, imprese come la Volkswagen quando investono in Italia chiedono capacità e competenza dei lavoratori, non abbassamento dei diritti? E anzi sembrano ben disposte ad allargarli per assicurarsi la partecipazione dei dipendenti ad un progetto industriale?
Si capisce bene perché Confindustria adesso invochi un po’ meno rigore. Ciò non toglie però che si tratti di keynesismo di facciata e di convenienza. Passata ‘a nuttata, si torna liberisti come prima.
(ringraziamo il blog Keynesiano.wordpress.com per la segnalazione)
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