Un paio di giorni fa è venuto l’Ingegnere a riprendersi il lettore dvd. L’aveva portato una sera fresca di maggio, la partenza delle Mille Miglia, in cui avevamo guardato In the name of father, aspettando di baciarci (anche perché lui, d’un tratto, aveva detto “aspetterò fino alla fine del film, per baciarti”, guardando fisso davanti a sé); poi Habemus papam, aspettando di fare l’amore, e Moebius, aspettando che finisse.
Mi ha chiesto se poteva tenere quel che gli ho scritto quasi un mese fa ma non ha accennato a nient’altro; forse aspettava una domanda, un’altra ma stavo scopando il pavimento assorta e scusa, ho avuto ospiti nel fine settimana, mi sono giustificata.
Abbiamo parlato, come sempre, di ciò che condividiamo, fratello e cognata, politica, morte.
Non capisco perché una come te voti il partito democratico. Cioè, vota Vendola, piuttosto; voglio decidere con te cosa votare, è importante.
Piccolo, vulnerabile Gabri, con le sue insicurezze sui capelli (ormai rasati), l’amicizia, la pallavolo, le solitudini. Mi sembra di vederlo ora per la prima volta, fuori dalle mie paranoie sul non essere voluta (o sull’esserlo troppo), fuori dalla coppia che saremmo stati, con i sabato sera in palestra e il dopo partita a consolarlo perché Mister e Pres hanno comprato una banda molto più forte di lui, che non è un debole, come mi ripete da quando siamo usciti per la prima passeggiata (“Se mia madre non fosse morta, saresti uscita con me ugualmente?”), ma viene affossato da ogni sguardo di disapprovazione. Mi viene in mente quando giocavo io e il Giuly mi insultava apposta, finché un giorno mi sono girata verso la panchina, la ragazzina bionda, e gli ho urlato Giuly, mi hai rotto i coglioni e lui incàzzati, dai, che poi palleggi meglio.
Se ne va abbracciandomi e dicendo che ha sempre bisogno di parlare con me, anche se io non mi faccio mai sentire. Lo guardo sul primo scalino e mi sembra che i suoi occhi siano più azzurri, al di là della lavanda; sorrido, perché sono tranquilla, lontana dalle mie nevrastenie e scioccamente proiettata in luoghi che non conosco con un uomo cui ho affidato le mie ingenuità ormai mature, che non usa le d eufoniche perché è snob, critico, splendidamente brillante, sopra a tutto. Così evito il mio solito sguardo severo, l’alterigia da arbiter amoris e il puntiglio ai quali sono giunta portata da un numero x di delusioni, un numero y di anni passati a osservare, un limite di finzioni autoindotte tendente a più infinito.
Qualche giorno dopo, a casa di mio fratello, mi dirà - sua sponte e non interrogato - quel che sottende da mesi, che se non fosse in un periodo di così ovvia sterilità vorrebbe stare con me sopra ogni altra cosa, sarebbe completamente perso. Tanto banale, scontato come sa essere un bambino che non lo processerò, non gli dirò parole concilianti, ma fissando il soffitto, non importa: credo di essere felice. Felice? Gli parlerò di C., sempre centellinando le parole e lui sarà contento e leggermente geloso, o almeno così io lo vedrò.
Continuo a non capire perché mio fratello abbia un pavimento nero costosissimo e i muri (soffitto compreso) che sembrano opera degli stessi autori delle incisioni rupestri in Valcamonica, ma stanotte non temo l’effetto grotta, sorrido e guardo il sito di Trenitalia.
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