Alzi la mano chi, a scuola, abbia sentito il professore di italiano spiegare che l’autore dei I promessi sposi era un malato di nervi ed affetto da una grave balbuzie, che soffriva di agorafobia conclamata, tanto che non uscì mai di casa se non in compagnia di qualcuno che potesse sorreggerlo durante le sue acute crisi, che era un profondo egoista dedito soltanto alla sua opera immortale, che rese quasi una schiava la sua prima moglie, la gracile Enrichetta Blondel, con tredici gravidanze e nove figli (di cui sei morirono tutti prima di Alessandro) ma che soprattutto lasciò morire la sua ultimogenita, Matilde, ad appena ventisei anni, nel letto di una famiglia presso cui era ospitata da sempre – essendo un sostanziale impiccio per il padre, risposato con Teresa Borri, vedova Casati dopo la morte di Enrichetta – mentre lei lo reclamava in ogni lettera?
Non credo che le mani alzate sarebbero molte, perché, molto spesso, sono i docenti stessi a non conoscere il «lato oscuro» dello scrittore milanese, affetti da una patologia che si chiama «idealismo crociano» e che li ha abituati a ritenere che le vicende biografiche degli scrittori – e, in genere, degli artisti – siano ininfluenti rispetto alla loro «poetica», ciò che probabilmente è stata una delle idee più sbagliate fra le tante partorite dalla mente dal filosofo di Pescasseroli.
Il Manzoni nevrotico
Una delle grandi scrittrici italiane del Novecento, Natalia Ginzburg, ha pubblicato nel 1983 uno dei suoi libri più belli e forse uno dei più strazianti dell’intera letteratura italiana: La famiglia Manzoni. L’idea di scriverlo le venne dopo aver conversato con Dinda Gallo, moglie del critico Niccolò Gallo, che aveva letto il corposo epistolario di Alessandro Manzoni e dei suoi familiari. L’essenza di questo splendido libro è così sintetizzato dall’autrice: «Ho voluto ricostruire la storia di una famiglia italiana famosa, ma ho lasciato che i protagonisti parlassero direttamente».
La famiglia Manzoni al gran completo, ma Matilde non è ancora nata
Alessandro è un uomo irresoluto (lo scrive lui stesso quando rifiuterà il laticlavio da senatore), appassionato di botanica e di vini, la cui ispirazione è altalenante, come il suo carattere. Ama Enrichetta ma non si rende conto della sua estrema fragilità fisica. Forse un marito migliore avrebbe posto più attenzione ai suoi rapporti sessuali con una donna che, ad ogni gravidanza (lo scrive lei stessa), rischia di perdere la vita. Ma il «cattolico» Manzoni non sembra preoccuparsene molto. Impiega lunghissimi anni nella correzione del suo capolavoro (fra la primavera del 1824 e quella del 1827, quando appare la cosiddetta «ventisettana») e poi, ma molto saltuariamente e nevroticamente, fra 1838 e 1839, per la cosiddetta «quarantana» (dopo «aver sciacquato i panni in Arno). Nello stesso tempo, elabora una strampalata teoria del romanzo storico, crudelmente dileggiata da Ugo Foscolo, che così scrive: «L’impotente vanità di uno scrittore vuol farla da poeta insieme e da critico e da antiquario, con la speranza che, se gli altri meriti gli saranno negati dal mondo, uno, non foss’altro, gliene rimarrà ad acquietare alla meglio la sua impazienza di fama».
Ma mentre lui si diletta con le sue teorie estetiche (che non gli produrranno alcuna fama di pensatore), l’esistenza di Enrichetta, come scrive la Ginzburg, trascorre fra questi quattro punti cardinali: «il matrimonio, la maternità, la malattia, la fede». Le sue lettere grondano di una disillusione diffusa, anche se sublimata in aspirazione al martirio. Lui, il marito, forse ne presagiva la morte, quando, curiosamente, alla pubblicazione di Adelchi (1822), scrisse una dedica alla moglie che era tutto un programma funereo: «Alla diletta e venerata sua moglie Enrichetta Luigia Blondel/la quale insieme con le affezioni coniugali e con la sapienza materna/poté serbare un animo verginale/consacra questo Adelchi l’autore/dolente di non poter a più splendido e più durevole monumento/raccomandare il caro nome e la memoria di tante virtù». Non può che essere significativo il fatto che Enrichetta ispirasse questo genere di proposizioni al marito.
La storia di Matilde
Esiste anche un film sulla storia di Matilde Manzoni: “Diario di Matilde Manzoni” girato da Lino Capolicchio nel 2002 con lo stesso Capolicchio nel ruolo di Alessandro Manzoni e con Ludovica Andò (Matilde), Laura Betti (Teresa Manzoni Borri), Corinne Cléry (Tante Louise)
Non sappiamo se veramente Manzoni amò sua moglie come o più di se stesso, però ne dubitiamo. Mentre siamo sicuri che la sua ultima figlia, Matilde, nata nel 1830 (tre anni dopo morirà Enrichetta), gli fu del tutto indifferente. La storia del suo rapporto con questa sfortunatissima fanciulla lascia esterrefatti, incrudeliti da un uomo che, a quarantacinque anni, non conosce e non rispetta i suoi doveri di padre.
Matilde trascorse la sua intera esistenza lontana da lui e dalla famiglia. Quando Enrichetta si spense, aveva appena tre anni e fu tirata su dalla nonna (Giulia Beccaria) e poi dalla sorella maggiore Giulia, per finire a studiare in convento. Poi va a vivere definitivamente con l’altra sorella, Vittoria e con suo marito, Bista Giorgini, in Toscana, a casa di quali terminerà i suoi giorni in un letto intriso di solitudine.
Matilde era una ragazza molto sensibile, un classico personaggio letterario del tardo romanticismo crepuscolare. Nel 1992, Cesare Garboli ha pubblicato il suo Journal, un diario scritto metà in italiano e metà in francese, dove la giovane esprime le sue idee e i suoi sentimenti, ma soprattutto le sue attenzioni critiche nei confronti degli scrittori che legge. Adora Leopardi («Leggendo Leopardi provo una sensazione che mi era finora sconosciuta»), mentre demolisce le tragedie di Silvio Pellico.
Il vero problema di Matilde è l’assenza del padre. Un’assenza ingiustificabile, per lei dolorosissima. Nell’ottobre del 1855 gli scrive: «Scusa caro Papà, temo di far male a lamentarmi così, temo di seccarti, ma non di parerti esigente[…]. Sai che sono dei mesi che non mi scrivi e non t’immagini che cos’è per me una riga tua? Tutte le mattine aspetto l’ora della posta con smania; e mi dico sempre, oggi certamente avrò una lettera, e invece tutti i giorni non c’è nulla». Ma il padre rimane assente, limitandosi a parole di circostanze, ipocrite, sulle sue condizioni di salute, che si aggravano sempre di più (Matilde era malata di tubercolosi cronica e degenerativa). Nel febbraio del 1855 scrive ancora: «Pensavo tante volte: quando starò peggio, scriverò a papà che per carità venga, non posso proprio morire senza rivederlo e senza che mi conforti colle sue parole e la sua benedizione!…Vero, caro papà che se dovessi star male tu verresti?».
Parole gettate al vento, perché il padre non andrà mai a trovarla, nemmeno quando la figlia Vittoria e Bista gli scrivono che Matilde sta molto male. Il 30 marzo del 1856, a ventisei anni, morì e, incredibilmente, ciò che Manzoni non aveva fatto fino a quel momento, lo fece quella estate, raggiungendo Vittoria e il marito Bista in Toscana,soltanto dopo che Matilde se n’era andata con il desiderio inappagato della sua presenza.
Fu così che Alessandro Manzoni terminò la sua opera meno riuscita, ottenebrato dal suo chiuso egoismo e dalla sua indifferenza verso la maggior parte dei figli. «Un uomo estremamente egoista» dice la Ginzburg, ed ipocrita: «Nelle lettere alla figlia Matilde continua a ripetere che lei gli manca, ma si capisce che in realtà è felicissimo che sia andata a vivere lontano».
La copertina del libro “La nevrosi di Manzoni” di Paolo D’Angelo
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
N. GINZBURG, La famiglia Manzoni, Einaudi, Torino, 1994
Matilde MANZONI, Journal, a cura di Cesare Garboli, Adelphi, Milano, 1993
P. D’ANGELO, La nevrosi di Manzoni, Il Mulino, Bologna, 2013