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Il lavoratore del terzo millennio deve essere “flessibile” tanto da spezzarsi?

Creato il 05 febbraio 2013 da Ciro_pastore

IL LAVORATORE DEL TERZO MILLENNIO DEVE ESSERE “FLESSIBILE” TANTO DA SPEZZARSI?TANTO DA SPEZZARSI? 

Flessibilità, mobilità, rischio sono le parole d’ordine imperanti nello scenario lavorativo contemporaneo. Già da tempo questi termini e, soprattutto, le politiche di gestione del personale che ne conseguono, sono patrimonio acquisito del mondo imprenditoriale privato. Da qualche tempo, in maniera inesorabile, tale strategia si sta estendendo al settore della pubblica amministrazione. Sembra si stia concludendo, rapidamente ed amaramente, un’epoca. Sta finendo forse l’era dell’assistenzialismo di Stato (o degli Enti Locali), e si comincia anche a proporre tagli alla burocrazia. E tutto questo in nome di un’economia costretta a diventare più dinamica e competitiva con i nuovi concorrenti dello scenario globalizzato.

Inutile sottolineare che la vita delle persone ne risente. Non esistono più stabilità e fedeltà all’azienda, che erano la forza del vecchio capitalismo; ora valgono incertezza, perenne innovazione, frenetico avvicendarsi di personale, ma non per questo scompaiono le forme di potere e controllo né le disuguaglianze nelle opportunità. Nel settore pubblico, non si parla ancora di veri e propri licenziamenti (almeno in Italia), ma blocco del turn over, aumenti di produttività e spesso tagli diretti ed indiretti alle retribuzioni, sono diventati fatti concreti, come la triste storia recente del Trasporto Pubblico Locale, al collasso in Campania, sta a dimostrare. Tutto ciò provoca nei lavoratori una reazione incontrollabile che si tramuta in senso di fallimento personale per la propria incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove inattese sfide. Fatto questo che distrugge l’abituale percezione di continuità dell’esistenza, fino ad impoverire quasi irrimediabilmente il già vacillante senso d’identità, già minato alle fondamenta da una società sempre più “liquida”. In passato, il lavoratore aveva un obiettivo pressoché unico e di lunga scadenza: il bene economico e fisico della sua famiglia. Esisteva una linearità del tempo che si manifestava in anni e anni passati in un solo posto di lavoro. Ma ogni insopportabile ripetitività routinaria era giustificata dall’obiettivo finale che aveva una posizione fondante nel dare struttura alle vite di ciascun capofamiglia. Accadeva, così, che quei padri e madri, che immolavano la propria vita per i figli, vedevano frequentemente realizzato il loro sogno di promozione sociale per la propria prole. L’evoluzione generazionale ha portato spesso, però, i figli a “disprezzare” il modus vivendi dei genitori, nonostante ne fossero i principali fruitori. Così, negli anni 80/90 le nuove generazioni hanno preso a denigrare i lavoratori a tempo indeterminato, o chiunque fosse al riparo della protezione paternalistica dello assistenzialismo pubblico, dando maggior valore sociale alla capacità di mettersi in gioco. Queste nuove generazioni hanno presto scoperto, però, che le esigenze del lavoro sono in conflitto con quello che dovrebbe essere lo scopo di tutto e si preoccupano che i propri figli (i figli del nuovo millennio) siano  oggi affetti da un’assenza di disciplina etica e vorrebbero che i figli seguissero un modello più risoluto e determinato. Capita sempre più spesso che quei giovani possano andare eticamente ed emotivamente alla deriva, non riconoscendosi più in famiglie incapaci di mettere in risalto l’importanza, non delle virtù camaleontiche della nuova economia, ma gli obblighi formali, l’affidabilità, la dedizione e tensione verso uno scopo superiore di vita. Tutte virtù che, a lungo termine, confliggono con i modelli improntati ad un’immanenza totalizzante. D’altra parte, è sempre più il “mercato”, guidato da sempre più frenetici consumatori, i cui gusti variano alla velocità della luce, a spingere le aziende a rapidi cambiamenti produttivi ed organizzativi. Le organizzazioni non sono più a piramide ma a rete e le promozioni e i licenziamenti non sono più basati su regole chiare e costanti e nemmeno le mansioni sono più fisse ed immutabili. Le moderne reti organizzative sono caratterizzate da “legami deboli”, visto che distanza fisica e superficialità nei rapporti sono più adatti per muoversi nella realtà aziendale attuale, rispetto all’epoca sorpassata della lealtà e della fedeltà. La società moderna è aperta mente in opposizione alle vite routinarie, mal sopporta ogni regola e qualsiasi tempistica preordinata. Ma ciascuno di noi sa bene che la routine può sì indebolire ma può anche proteggere le personalità più deboli inquadrandole in uno scenario strutturato che le preserva da qualsiasi paura esistenziale e/o professionale. La routine, insomma, ingessa e costringe i volitivi ma protegge i deboli. La flessibilità, invece, con tutto il suo carico di rischi e di incertezze, rende più agile la società e i sistemi produttivi che dovrebbe condurre verso un’accentuazione delle libertà personale. Si dà per scontato, infatti, che essere disponibili al cambiamento, essere flessibili, sia una qualità indispensabile per agire liberamente in quanto gli esseri umani possono esser liberi solo se sono capaci di cambiare continuamente. La ricerca di flessibilità, invece, ha troppo spesso prodotto nuove strutture di potere e di controllo piuttosto che creare le condizioni per una reale libertà. Le numerose e ricorrenti ristrutturazioni, giustificate per l’appunto dalla necessità di produzioni flessibili, hanno prodotto e producono inevitabili riduzioni di posti di lavoro che, loro volta, producono disuguaglianza sociale. Spesso, infatti, il downsizing forzato non produce né un aumento di produttività né un aumento dei profitti perché il personale rimasto perde sicurezza e aspetta solo il prossimo calo di  personale, riducendo di molto la propria produttività individuale e complessiva. Ma le imprese che attuano i tagli di personale (o i tagli retributivi) aumentano le proprie quotazioni azionarie, perché le borse (ciecamente) apprezzano le ristrutturazioni e le premiano. Ma i governi (nazionali e locali) di fronte a questa richiesta dilagante di flessibilità da parte delle aziende, come si pongono? Ci sono sostanzialmente due possibili reazioni. Da una parte, le socialdemocrazie nordiche tentano di porre un freno ai cambiamenti quando i loro cittadini più svantaggiati si trovano in difficoltà; mentre le economie angloamericane sono più propense a cambiare l’organizzazione e le pratiche del lavoro, anche se i deboli ne potrebbero risentire. La prima produce disoccupazione; la seconda provoca l’aumento della disuguaglianza salariale. Ogni sistema si protegge con i propri sistemi di “ammortizzatori sociali”. In Italia, invece, gli ammortizzatori sociali (CIG) sono insufficienti a difendere i lavoratori dalla flessibilità del sistema e, troppo spesso, non coprono l’intero panorama occupazionale. Tipicamente, i lavoratori del TPL non sarebbero coperti dalla CIG ed, infatti, per loro si è dovuto operare “in deroga”. Ma, al di là dei riflessi occupazionali e retributivi, la flessibilità produce danni anche sull’etica del lavoro, di weberiana memoria. Il lavoratore “flessibilizzato” sente la mancanza di rapporti umani stabili e di obiettivi a lungo termine. L’etica del lavoro, così come l’abbiamo sempre intesa, dipende dall’esistenza di istituzioni abbastanza stabili e non da datori di lavoro il cui unico scopo è quello di vendere tutto e al più presto e poi spostarsi. La moderna etica lavorativa si basa sul lavoro di gruppo; esalta la ricettività nei confronti degli altri, richiede talenti soft come quello di saper ascoltare gli altri e disponibilità a collaborare e soprattutto l’adattabilità alle circostanze. Il lavoro di gruppo è l’etica lavorativa applicata ad un’economia flessibile. Un lavoratore motivato internamente, teso a dimostrare il proprio valore morale attraverso il lavoro, è intensamente competitivo ma non può godersi ciò che ottiene; la storia della sua vita diventa un’infinita ricerca di riconoscimento da parte degli altri, ma anche se questi lo lodassero, lui avrebbe paura ad accettare questo elogio, perché ciò significherebbe accettare sé stessi. I gruppi, che la flessibilità predilige, hanno la tendenza a restare uniti limitandosi, però, a sfiorare la superficie delle cose; la condivisione degli aspetti superficiali mantiene la gente unita evitando le domande difficili e personali che possono creare divisioni. A contare è solo la partita in corso ed ad ogni nuova partita si ricomincia da zero (è lo stesso che affermare che l’anzianità conta sempre meno). Il capo si trasforma in “leader”, il quale è più un collega che un capo. I lavoratori diventano degli attori e ad ogni gruppo di lavoro corrisponde una diversa faccia adatta a quel gruppo, trasformando tutti in maschere di cooperazione. Nell’ambiente superficiale creato dal gruppo di lavoro è presente il potere ma non l’autorità. Il buon lavoratore di gruppo non si lamenta. Chiedere aumenti di stipendio è una mancanza di cooperazione e c’è solo da vergognarsene. Un io flessibile, un collage di frammenti sottoposti a un incessante divenire sempre aperto a nuove esperienze: sono proprio queste le condizioni psicologiche più adatte al lavoro a breve termine, alle istituzioni flessibili e alla costante assunzione di rischi. Le incertezze create dalla flessibilità; l’assenza di una fiducia e di una dedizione che abbiano radici profonde; la superficialità del lavoro di gruppo e, soprattutto, lo spettro di non riuscire a diventare qualcuno nel mondo di non costruirsi attraverso il proprio lavoro: tutte queste condizioni spingono la gente a cercare attaccamento e profondità da qualche altra parte, ma fatalmente non la trovano né nel tessuto sociale, né ovviamente nelle aziende stesse.


Quello che sta accadendo da circa due anni a noi lavoratori del Gruppo EAV è la dimostrazione evidente di quanto politiche di gestione delle risorse umane sostanzialmente orientate alla flessibilità abbiano per ora prodotto fra i lavoratori solo disgregazione collettiva e frustrazione/ disorientamento individuale: una situazione che nessun recupero in termini economici potrà compensare. “Il Male che tolleriamo è il bene che desideriamo” Ciro Pastore Il Signore degli Agnelli


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