Qualche tempo fa ero ospite in una trasmissione televisiva e, in collegamento da Cassina de’ Pecchi, vicino Milano, c’erano gli impiegati della Nokia (già Italtel e poi Siemens) i cui posti di lavoro sono in questo momento gravemente messi a rischio. Perché questo accade è ovvio: ciascuno di noi fino a qualche anno fa aveva un cellulare Nokia in tasca e oggi non è più così. La Nokia, che era un’azienda floridissima, è ora entrata nell’orbita della Microsft che aspira a rilanciarla posizionandosi attraverso di essa nel ricco mercato degli smartphone accanto ad Apple e a Samsung-Google. La domanda che si pone è dunque: se Nokia chiude a causa della crisi, perché Samsung o Apple o qualsiasi altro concorrente non arriva di corsa a Cassina de’ Pecchi, dove ci sono tanti italiani capaci di fare i telefoni e non costruisce un nuovo business mettendo a frutto quel talento?
Il fatto è che né la Nokia né i suoi concorrenti pensano a fare tutto questo. E ciò accade per gli stessi motivi che hanno portato i 24 miliardi di euro investiti dagli stranieri in Italia nel precipitare alla metà nel 2012. Mancanza di infrastrutture, una burocrazia strangolante, un fisco cervellotico, a livelli altissimi di corruzione, la presenza della criminalità organizzata, e anche – non esclusivamente, ma è certamente parte del problema – una legislazione del lavoro incomprensibile per gli stranieri. Chi volesse fare un investimento aprendo uno stabilimento in Italia, vorrebbe certamente sapere in quanto tempo quello stabilimento potrebbe essere chiuso e quale sarebbe il costo relativo alla cessazione dei rapporti di lavoro (c.d. “severance cost”).
L’esigenza che abbiamo di fronte è dunque quella di pianificare adeguatamente e di non spostare sulle aziende il peso di un welfare assente e di sistemi di formazione e riqualificazione professionale che da noi sono fallimentari. Possiamo dire con una qualche serenità che i centri per l’impiego, in Italia, servono ad impiegare giusto coloro che ci lavorano. In più, il sistema attuale autorizza le aziende a ridurre i livelli occupazionali solo quando la crisi è acclarata, e impedisce di usare la leva della riduzione dei costi al fine di impedire la crisi produttiva, salvando così posti di lavoro. Detto in altre parole, non si può licenziare nessun lavoratore fino a quando non ci si trova nella condizione di dover necessariamente licenziarli tutti.
Il problema è dunque quello di ripensare interamente il ciclo di vita del lavoro e delle garanzie per i lavoratori nel nostro paese. Il fatto è che oggi, come dimostra la vicenda della Nokia, i prodotti e le imprese hanno un ciclo di vita molto più breve di quello di un tempo.
Il mio primo datore di lavoro è stata la gloriosa Banca Commerciale Italiana: quando fui assunto, nel 1991, la banca era lì da 100 anni e io ero sicuro che sarebbe stata lì, in Piazza della Scala a Milano, in saecola seculorum. E invece io sono ancora qui, ancora relativamente giovane e in salute, mentre la Comit non c’è già più. Se è andata così a me, immagino cosa abbiano provato i colleghi che negli stessi anni venivano assunti dal Banco di Napoli, che stava lì dal 1539 e anch’esso, dopo quattro secoli e mezzo, non esiste più. Insomma, se un tempo era legittimo aspettarsi che il proprio datore di lavoro sarebbe sopravvissuto a generazioni di propri dipendenti, o che almeno avrebbe avuto la bontà di stare sul mercato in buona salute finanziaria per i 35 anni utili a maturare la nostra pensione, ora non è più così. L’obsolescenza dei prodotti e delle tecnologie, la progressiva creazione di un mercato meno protetto e più aperto alla concorrenza e le concentrazioni tra attori economici fanno sì che chi entra nel mercato del lavoro abbia un’aspettativa di cambiare lavoro molte volte: c’è chi dice almeno 7, nel corso di una carriera.
Allora il tema non è davvero più l’articolo 18, il tema è pensare come garantire i lavoratori nel passaggio che ineluttabilmente ci sarà tra una posizione di lavoro e un’altra. Come sostenerli dal punto di vista del reddito, come formarli per consentire loro di sfruttare nuove occasioni professionali e come incoraggiare la creazione di nuovi posti e occasioni di lavoro per ricollocare i lavoratori adeguatamente riqualificati. Chi credesse di poter limitarsi ad agire sull’articolo 18 dimostrerebbe di non ever capito che quello che è necessario è un approccio al problema non semplicemente migliorativo, ma totalmente nuovo. La sfida del Pd non è quella di migliorare il mercato del lavoro o di rivedere qualche clausola contrattuale, ma di prendere atto della rivoluzione che è in atto e di provare a ridisegnare i cicli e il mondo del lavoro sin dalle fondamenta.