Comincia la Fase 2 del Governo Monti, anzi è un tutt'uno – dice l'emerito Premier nominato da Napolitano – con la prima manovra che si pretende abbia messo in sicurezza i conti pubblici: la stangata che si è abbattuta sui ceti medio-bassi, alla faccia della tanto declamata equità, e che ha reso il raggiungimento della pensione un miraggio per milioni di lavoratori.
Ed in effetti la filosofia di fondo è la stessa, quella visione liberista che ci ha condotto al punto in cui siamo e che si nutre di parole d'ordine quali mercato, crescita, flessibilità, competitività, liberalizzazioni, privatizzazioni. Se per la destra leghista-berlusconiana i nemici, i colpevoli di tutto erano gli immigrati, i meridionali, i dipendenti pubblici, gli invalidi più o meno falsi, ora si vuol far credere che l'ostacolo allo sviluppo siano i tassisti, i benzinai, i farmacisti, gli avvocati, i notai, gli edicolanti. Categorie verso le quali si possono nutrire più o meno simpatie e certamente le regole che disciplinano quei settori possono essere discusse e modificate in funzione del bene comune, ma è davvero arduo potersi convincere che da essi dipenda il destino dell'economia del Paese. Appare chiaro allora che si tratta di comodi specchietti per le allodole (quanto verranno poi effettivamente penalizzati dai futuri provvedimenti del Governo, trattandosi di ceti che vantano notoriamente un rapporto preferenziale con le destre e nel caso degli avvocati su un'amplissima rappresentanza parlamentare, sarà tutto da vedere) per arrivare alla polpa. E cioè il mercato del lavoro (leggi licenziamenti facili) e alla messa in vendita degli ultimi asset rimasti in mano dello Stato (il controllo di ENI, ENEL, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, il patrimonio immobiliare, le aziende che erogano a livello locale servizi pubblici).
Su liberalizzazioni e privatizzazioni dice tutto Ugo Mattei in modo esaustivo e convincente in questo articolo. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, prima di intervenire i membri del Governo e del Parlamento si rileggano la Costituzione.
L'articolo 1: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”
L'articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
L'articolo 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."
Membri di Governo e Parlamento si facciano un giro sul sito dell'isola dei cassintegrati dove sono raccontate molte delle storie dei lavoratori delle aziende in crisi, le loro lotte per non vedere annientato il proprio futuro e la propria possibilità di vivere. Sono le storie e le drammatiche e disperate lotte dei lavoratori (ne cito solo alcune) della Vinlys, della Wagon Lits, della Omsa e della Golden Lady, di Agile-Eutelia, dei pastori sardi, dei precari della Scuola e della Ricerca. Ripensino alle vicende della INNSE, degli stabilimenti Fiati di Pomigliano d'Arco, di Cassino, di Avellino, dell'Irisbus.
Leggano i numeri dell'Istat che parlano di un quarto degli italiani costretti a fronteggiare la povertà.
Ascoltino almeno l'appello del Papa e delle gerarchie vaticane per un'economia che sia fondata sulle ragioni degli esseri umani. Tengano almeno conto di quanto afferma Draghi sulla troppa flessibilità che fa male.
Il lavoro è un diritto così come il diritto alla salute, all'istruzione, all'informazione, all'esercizio dei diritti politici e sindacali anzi li precede tutti perché solo la disponibilità di un lavoro/reddito ne rende effettivo l'esercizio oppure il lavoro è qualcosa da perseguire compatibilmente con le condizioni di mercato?
Il mercato non ha mai creato la piena occupazione e tanto meno giustizia sociale. Anche nel glorioso trentennio del boom economico italiano, in cui il nostro Paese diventava uno dei più sviluppati del mondo, i lavoratori per raggiungere un lavoro hanno pagato prezzi altissimi in termini di condizioni di vita, di sradicamento dalle proprie terre di origine emigrando dal sud al nord, trasferendosi dalle campagne alla città.
Pretendere di barattare oggi, come fa la proposta Ichino della flexsecurity alla quale sembra volersi ispirare il Governo di Monti e della Fornero, diritti che dovrebbero essere scontati in un Paese civile (indennità di disoccupazione, di maternità, di malattia per i precari) con la definitiva rinuncia alla stabilità del posto di lavoro (l'abolizione dell'articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel caso di licenziamento senza giusta causa) è ignobile e folle.
La tattica è sempre la stessa: si crea un ghetto nel quale si imprigiona la vita di milioni di essere umani e poi, con l'alibi di eliminare le disuguaglianze e colpevolizzando i 'vecchi' e i 'garantiti', si pretende di livellare tutti verso il basso.
Certo l'articolo 18 non garantisce l'occupazione (gli esempi citati delle aziende in crisi lo dimostrano). Il divieto di licenziamento senza giusta causa è semplicemente un fatto di civiltà, è sancire che non si verrà espulsi da un'azienda per le proprie opinioni politiche e religiose, per la propria condizione sociale, per la propria appartenenza razziale e le proprie preferenze sessuali, per le assenze per malattia o maternità La stabilità del posto di lavoro (cioè il fatto che non si possa essere arbitrariamente licenziati) è una condizione essenziale per progettare la propria vita, comprare casa, fare un figlio. Rendendo possibile il licenziamento individuale per le ragioni organizzative ed economiche si darebbe modo alle aziende di aggirare facilmente il divieto di azioni discriminatorie, con lavorazioni e reparti costituiti ad hoc. La ratio dell'abolizione dell'articolo 18 è di rendere tutti i lavoratori ricattabili, di farli vivere perennemente nella paura, di trasformarli in passivi esecutori delle volontà del datore di lavoro. Se si pensa che i precari, pur nella drammaticità della propria condizione lavorativa, non sono mai riusciti ad esprimere una rappresentanza sindacale forte e organizzata si può bene immaginare quale sarà l'evoluzione dei rapporti tra lavoratori e padroni. Come avrebbero potuto opporsi tanti operai ai ricatti di Marchionne senza la tutela dell'articolo 18 ed è un caso che nella nuova azienda Fiat di Pomigliano si stanno escludendo gli iscritti alla Fiom?
Se oggi un precario ha la remota speranza di una stabilizzazione, domani sarebbe condannato all'incertezza perenne.
E d'altra parte se il divieto del licenziamento individuale senza giusta non dovrà essere applicato – come si sostiene nelle ipotesi di riforma che vengono fatte filtrare - ai vecchi lavoratori, non si manterrà la separazione tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B? Per poi ritrovarci tra qualche anno, come per le pensioni, a veder accusati i 'vecchi egoisti' di affamare i 'giovani'?
L'aspetto dirompente, per le dinamiche del conflitto sociale e dei rapporti di forza tra lavoratori e padroni, dell'abolizione dell'articolo 18 (contro la quale nel 2001 scesero in piazza tre milioni di lavoratori al Circo Massimo a Roma) l'hanno capito tutti. Persino i colpevoli leader sindacali. Persino Bersani.
E poi se ci sono i soldi, come dice Ichino, per un welfare ispirato a quello danese si garantisca a tutti da subito il reddito necessario per vivere liberando gli individui dalla schiavitù del bisogno e sostenendo quella domanda interna che sola può ridare fiato all'economia. Applicando finalmente l'articolo 4 della Costituzione che riconosce a tutti il diritto al lavoro e al reddito. Di diritto del lavoro ci sarà tempo per parlarne in futuro.
E guardando le cose dal lato della 'crescita', a chi si vuol far credere che maggiore flessibilità (come se oggi non ce ne fosse già abbastanza) spingerà le aziende ad assumere quando si può facilmente trasferire la produzione in Paesi dove miliardi di esseri umani offrono le proprie prestazioni senza tutele e per un salario da fame?
Per affrontare povertà, precariato, disoccupazione serve un Progetto Paese. E in questo Progetto le problematiche del mercato del lavoro hanno ben poco peso rispetto ad altri aspetti quali la politica industriale, la legalità (la corruzione, l'evasione fiscale, la criminalità organizzata autentiche palle al piede per lo sviluppo e la crescita), l'ambiente, l'energia, il sistema della mobilità e delle comunicazioni, l'inefficienza della Pubblica Amministrazione, l'istruzione e la formazione, la ricerca, la necessità di garantire a tutti un reddito minimo.
Serve un Progetto in cui la Politica, espressione della partecipazione dei cittadini, definisca cosa produrre, come produrre, come distribuire fra tutti la ricchezza ottenuta.
Un Progetto che non è da riscrivere ex novo, che non è l'idea di un regime che deve evocare gli scenari del romanzo 1984: è semplicemente l'attuazione della nostra Costituzione Repubblicana.
Se i cittadini non saranno in grado di imporre una politica che sappia perseguire questo Progetto è inevitabile che l'Italia verrà stritolata nella morsa congiunta della speculazione finanziaria, delle tradizionali grandi potenze economiche mondiali (USA, Germania, Giappone oltre a Francia e Gran Bretagna), della concorrenza insostenibile in termini di costi delle nuove economie emergenti.