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“Il leone e l’uccellino” di Marianne Dubuc, Orecchio Acerbo

Da Federicapizzi @LibriMarmellata

leonecopIl tempo lento, il tempo delle stagioni, dei gesti caldi, intimi, rituali fa da sfondo lieve e da accompagnamento armonico al sentimento confortante e pacato, mite e generoso, dell’amicizia nell’incantevole albo “Il leone e l’uccellino” di Marianne Dubuc, edito da Orecchio Acerbo.

A chi possa trovare azzardato l’accostamento dei personaggi del titolo viene sicuramente in soccorso la dolcezza rassicurante dell’immagine di copertina nella quale l’affetto e la sintonia tra i due protagonisti è palese. Occhi negli occhi, vicinanza e sostegno, quel muover del capo del leone verso la bestiola pennuta parla di accoglienza naturale e spontanea.

L’animale solitamente feroce qui, infatti, tale non è. Appare mansueto fin dall’incipit, fin da quel frontespizio che si fa inizio di narrazione. Il leone è pacato, contadino o giardiniere, è silenzioso, tranquillo.
Un messaggio, credo, questo che va oltre la rapidità e la superficialità dell’asserire che l’amicizia può nascere tra diversi. E’ vero: l’affetto non guarda in faccia all’apparenza – e gli opposti qui chiamati in causa ne sono simbolo e testimonianza – ma c’è una sintonia di spirito dalla quale non si può prescindere. E il leone e l’uccellino di Marianne Dubuc sono legati da un filo la cui traccia evanescente ma vivissima si manifesta in ogni pagina del libro.

E’ autunno, lo si capisce dal colore delle foglie, dai mucchi delle stesse riuniti sotto gli alberi, da quelle poche ribelli che sfuggono al rastrello e si disperdono sul prato, dalle folate di vento che ne fanno turbinare altre. Il leone gentile indossa una tuta da lavoro di tessuto jeans, coltiva il suo orto quando sente un rumore.

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Il rumore, annunciato dal testo è chiaramente quello di una caduta ma questa non viene mostrata. Deve essere, ovviamente, immaginata e inserita tra la percezione del tonfo e il ritrovamento dell’animaletto.
Sembra banale ma si tratta di uno spazio bianco; è un lavoro che compete al lettore: completare la traccia, riempire i vuoti della narrazione, la quale, rendendo fiducia a chi si trova davanti alle pagine e accompagnandolo senza essere invadente e sovrabbondante, guadagna in leggerezza, poesia ed armonia.

E’ necessario che ci si prepari: in quest’albo, il cui sviluppo abbraccia un tempo lungo – l’arco di un anno – tanti spazi saranno lasciati liberi. Quei vuoti morbidi tra tavola e tavola si faranno tempo – ore, giorni, mesi – tra un’azione e l’altra, tra un accadimento e quello dopo. Colmarli è esercizio di fantasia e di competenza inferenziale, entrambe stimolare da una simile costruzione: il bambino collega e immagina, aiuta l’autrice a comporre la storia.

L’uccellino ha un’ala ferita e il leone non esita nemmeno un minuto nel medicarla e fasciarla e, purtroppo, nel frattempo, lo stormo ha preso le distanze ed è irraggiungibile per un piccolo volatile ferito.

La premura del bestione dalla criniera è commovente: prima mette l’amico al caldo tra il folto della sua criniera e poi lo conduce a casa con sé, annunciando con gioia che lo spazio è tanto, possono condividerlo.
E così è. Leone ed uccello dividono i piccoli rituali della quotidianità: mangiare, dormire, l’igiene e il momento del relax.
Tutto è calma, tenerezza ed armonia, dal piatto sulla tavola apparecchiata dove l’uno rimesta con la forchetta e l’altro becchetta, fino alla lettura intorno al fuoco (immagino che il leone intrattenga il piccolo con le storie), per non dimenticare la dolcezza della pantofola adibita a letto.

Nel frattempo che le immagini piccine, originalmente contenute in oblò dalla forma tondeggiante, raccontano azioni e condivisioni, quelle grandi, a doppia pagina, mostrano il passare del tempo, delle stagioni.

Arriva così l’inverno e con esso la neve. Cambia qualche consuetudine, si trovano altri svaghi – giocare e scivolare sul manto bianco, pescare nel ghiaccio – ma, sempre, Marianne Dubuc ha interesse a raccontare la cura e la premura, come quelle che sottendono al buco nel cappello di lana, dove l’amico grande mette al sicuro dal freddo l’amico piccino.

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I mesi freddi passano all’insegna del candido (qui la doppia tavola completamente bianca sul cui significato tornerò poi), fino a lasciare campo alle prime tracce del risveglio della natura.

Ma con la primavera, si sa, tornano i volatili migratori. L’uccellino è oramai guarito e può tornare a volare con i suoi simili.
E’ il momento dei saluti, del distacco, doloroso ma necessario. D’altra parte chi si ama non si vincola, l’affetto sincero riconosce le esigenze delle parti e le rispetta, catene ed amore non dovrebbero andare mai a braccetto.

Il nostro leone, che oltre che buono è saggio, ne è ben consapevole: lasciare andare l’amico è giusto. Nonostante ciò non può nascondere la tristezza e il senso di solitudine, la quale, soprattutto dopo aver conosciuto la vicinanza e la condivisione, si fa più materica e concreta.

Tanti i richiami emotivi di questo passaggio della storia. La sottolineatura, che tra le righe passa, del rapporto stretto tra amore e rispetto, tra amore e libertà ma, allo stesso tempo, il sensibile riconoscimento di tutti i sentimenti, anche quello più scuri, tristi, melanconici. Perché i bambini abbiano coscienza che quando si mette in gioco il cuore ci si può trovare a scegliere e scegliendo un poco a soffrire e sappiano dare spazio e dimora ad ogni moto contrastante.

Trovo che nel rapporto tra leone e uccellino ci siano anche eco importanti dell’amore genitoriale, dalla cura all’accompagnamento verso la crescita, fino al volo che ogni bambino sostenuto dovrebbe poter spiccare sereno una volta arrivato il momento.

Al grosso animale con la criniera non resta che tornare alla sua vita precedente, alle operazioni quotidiane, al lavoro dei campi, agli svaghi solitari e tranquilli.
Ecco tavole velate di malinconia. Pur senza cambiare toni e colori, l’autrice sapientemente dissemina tracce che parlano di mancanza e nostalgia.

Basta esaminare al confronto due doppie pagine dalla simile costruzione.

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Sono i dettagli nell’una e nell’altra a raccontare stati d’animo vivi e densi. Nella prima pare quasi di toccare calore e vicinanza, gioia e serenità. Nella seconda il leone ha lo sguardo basso e cincischia col cibo, nella prima ha gli occhi rivolti all’amico e mangia. Nella seconda non legge, guarda il fuoco con occhi che immaginiamo spenti. Non dorme nemmeno: tanto nella prima appare rilassato e tranquillo tanto nell’altra sono evidenti inquietudine e pensieri.

Una traccia anticipa il nuovo arrivo della stagione invernale, così come una traccia – i bucaneve – aveva anticipato quello della primavera e la neve si era fatta messaggera dell’inverno. Ora è una foglia cadente ad attirare l’attenzione del leone e a fargli subito rivolgere lo sguardo – primo pensiero! – al cielo.
Ci sono, infatti, i gruppi di uccelli in volo ma pare passino indifferenti. E’ la delusione ora a fare da padrona, forte, intensa, toccante.

Infine l’ultimo indizio dell’albo: il segno di una nota su doppia pagina bianca. E’ solo un’immagine ma la leggiamo sonora. Ancora – meraviglia dell’albo illustrato – comprendiamo chiaramente che si tratta di un canto e come il segno infrange il bianco della tavola allo stesso modo il suono spezza il silenzio, che non era solo fisico ma anche dell’anima.

E’ un ritorno ma non per sempre, solo per lo spazio di un altro inverno. L’accoglienza è lieta, torna la premura e anche la casa, simbolo di intimità e famiglia, è lì ad attendere.

Si badi però che l’ultima tavola non è quella della casa bensì quella che mostra il volo dello stormo. Il messaggio è chiaro: gli amici si accompagnano volentieri nella vita ma non è necessario che si sovrappongano le rispettive esistenze.

Un albo, questo, ricchissimo di contenuti emotivi. Come anche di grazia e lievità.
Raffinatissimo dal punto di vista della costruzione, tanti sono i meccanismi sublimi dell’albo illustrato che Marianne Dubuc usa con padronanza e naturalezza, accompagnando il lettore in un percorso magico e suggestivo fatto di pochissime e misurate parole e tavole narranti efficacissime.

Il senso del tempo è giocato con sapiente maestria, bastano pochi tratti essenziali per raccontare il passaggio dei mesi, delle stagioni, come ad esempio la pianta che cresce via via in una stessa doppia facciata e si fa da germoglio fino ad alberello con frutti, passando dalla necessaria fioritura.

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Mi piace concludere con un’analisi di alcune delle ripetute tavole prive di figure disseminate via via nell’albo.

La prima doppia pagina bianca la troviamo dopo due che mostrano il cadere della neve sullo stesso scenario e differiscono per intensità e copiosità della coltre candida che via via si va depositando, rendendo anche l’aria lattea.
Dal punto di vista fisico, quindi, la tavola vuota rappresenta la piena e completa invasione del bianco della neve la quale, nel cuore dell’inverno, tutto copre e cela.
Ma questa è anticipata da una riga di testo nella pagina precedente: “Ma il freddo in due non è così male”.
Ecco quindi che tutto quel bianco diventa anche simbolo di un’intimità preziosa e celata gli occhi, è un color candido soffice e accogliente entro il quale si custodisce una vicinanza, quasi a proteggerla da una rivelazione che disvelandola la svilirebbe.

(Il significato fisico del bianco- rappresentare la neve – è chiaramente spiegato al voltare successivo di pagina quando esso viene infranto dalla comparsa del bucaneve)

Altre due facciate bianche, stavolta non doppie, compaiono quando l’uccellino prende il volo per seguire lo stormo e quando l’amico, sperando nel suo ritorno, resta deluso.
In entrambe a restare sospeso nella pagina vuota è il leone, la prima volta nel lato di destra e la seconda in quello di sinistra.

Ricordiamo che il ritmo consueto di lettura è da sinistra verso destra, ciò che quindi dimora nella pagina di sinistra viene percepito come “prima”, ciò che è contenuto in quella di destra come “dopo”.

Ecco quindi che il leone a destra con lo sguardo verso un vuoto a sinistra fa pensare alla nostalgia (mancanza di qualcosa che c’era prima e ora non c’è più) mentre il leone a sinistra e il muso verso destra fa immaginare l’attesa e, se a destra c’è bianco, alla frustrazione dell’attesa e quindi alla delusione.

(Nell’immagine della partenza la figura dell’animale è per giunta molto piccola e rende alla perfezione desolazione e smarrimento, là dove la solitudine prende fisicamente il sopravvento)

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Il tratto di Marianne Dubuc, la cui scanzonatezza e tenera allegria abbiamo già imparato a conoscere in altri lavori, si arricchisce in quest’opera di una quota aggiuntiva di lievità, soavità e delicatezza.
Il risultato è che tutto pare sorridere e accarezzare, accompagnare, emozionare e comprendere, con un risultato che fa bene al cuore e all’anima di grandi e piccini.

(età consigliata: da quattro anni)


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