Il Libero Mercato vuole eliminare i resti dello Stato Sociale

Creato il 13 maggio 2011 da Coriintempesta

La recessione economica che stiamo vivendo, conseguenza della crisi finanziaria scoppiata a cavallo del 2007-2008 innescata dalle speculazioni delle banche e delle finanziarie anglosassoni sul mercato dei mutui subprime, sembra non avere insegnato nulla agli operatori del settore, alle autorità di controllo e di indirizzo e a tutti coloro che hanno in mano i destini dei popoli e il futuro di tutti.
Ad iniziare dai politici. Nonostante la crisi abbia dimostrato che il Libero Mercato non è la panacea di tutti i mali, anzi in molti casi ne è la causa, e che non esiste alcuna “mano invisibile” (alla Adamo Smith) in grado di sistemare le cose per il meglio e garantire benefici per tutti. Nonostante sia stata l’assenza di controlli e di freni statali a permettere agli speculatori di fare il proprio porco comodo. Nonostante tutto questo, molti tecnocrati continuano a sostenere che l’assenza dello Stato nell’economia aiuterebbe anzi favorirebbe una ripresa economica. Il grave è che ci sono ben poche personalità politiche che si prendano la briga di rispondergli per le rime e rivendicare il ruolo centrale svolto dallo Stato attraverso le opere pubbliche e dallo Stato imprenditore attraverso le aziende pubbliche per sostenere una crescita economica reale e lo sviluppo. E soprattutto tutto quello che si può e si deve ancora fare per garantire l’interesse generale di un singolo Paese la cui difesa non può essere certamente appaltata ad organismi tecnocratici e sovranazionali come la Commissione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e il Financial stability board. I quali, essendo guidati immancabilmente da ex dirigenti e funzionari banche e di società multinazionali, sono portati, per forma mentis a lavorare ed agire per far nascere un unico grande mercato globale.
Un mercato sul quale potranno essere spostati a piacimento, da Paese a Paese, merci e prodotti finiti, capitali e forza lavoro. Un mercato globale nel quale la presenza degli Stati, e una economia di tipo misto, vengono considerati come un ostacolo da spazzare via con decisione e senza pietà. Un mercato nel quale varrà soltanto la legge del più forte e quella della maggior efficienza e dove considerazioni di tipo sociale verranno accantonate, ignorate e messe nell’angolo. Si tratta del resto di un traguardo fisiologico, già presente nelle premesse fondanti del Libero Mercato. Ed è grave anzi gravissimo che proprio le forze politiche di una Sinistra che un tempo si richiamavano al comunismo, al socialismo e alla socialdemocrazia, che volevano una trasformazione della società in senso più equo con una diversa distribuzione del reddito, siano oggi quelle che più si adoperano per scavalcare a destra le forze moderate nel chiedere più mercato e più liberalizzazioni.
Si tratta certamente degli effetti della eterna sindrome del convertito in virtù della quale si diventa più realisti del re e si cerca di lucidarsi le ali per arrivare a spiccare il volo verso il paradiso in terra che, in questo caso, è rappresentato dal Libero Mercato. Ma si tratta pur sempre di una deriva storica di fronte alla quale non si può non provare un senso di fastidio. Una posizione che per costoro è molto difficile da sostenere dal punto di vista politico ed elettorale. In particolare in Italia. Tanto che i partiti della cosiddetta Sinistra, in un Paese condizionato dalle ideologie totalitarie cattolica e marxista come il nostro, sono stati costantemente sconfitti dal punto di vista elettorale. Le loro derive politiche e culturali sono state infatti interpretate come un’anomalia tanto che il loro elettorato è stato spinto a transitare altrove, ad esempio alla Lega che ha sostituito il radicamento di classe con quello localistico. Ma non è ovviamente un caso solo italiano.
Anche in altri Paesi a grande tradizioni bipartitiche non valgono più i tradizionali concetti di Destra e di Sinistra e gli avversari o i nemici non sono più quelli interni ma gli immigrati che la globalizzazione spinge in Europa in cerca di uno straccio di lavoro e li porta inevitabilmente a scontrarsi con i locali e ad aggiungersi alla sterminata schiera dei nuovi poveri creati dalla globalizzazione dei mercati e dalla impossibilità dei Paesi avanzati del cosiddetto Occidente di fare fronte alla concorrenza dei Paesi emergenti, i quali basano la loro forza su un costo del lavoro bassissimo. Quando i mercati erano meno aperti e le frontiere era protette dai dazi, forse c’era meno concorrenza in determinati settori ma quantomeno c’era uno Stato sociale che come quello italiano della Prima Repubblica tutelava i poveri e i disoccupati con un complesso sistema di ammortizzatori sociali. Oggi nella nuova realtà che stiamo vivendo ognuno è abbandonato a se stesso in nome dell’immortale principio: “Arrangiatevi!”.
Non è un caso che continuino ad aumentare i nostalgici del “come eravamo” e che anche a livello di certi politici di governo si stia pensando a reintrodurre dazi non solo per contrastare una concorrenza estera sleale ma anche per creare un sistema di assistenza sociale che non abbandoni cittadini e lavoratori al libero gioco del Mercato.

L’esperienza italiana

Per quanto riguarda il nostro Paese, dobbiamo ricordare che la nascita dello Stato imprenditore negli anni trenta, attraverso l’IRI di Alberto Beneduce, non fu soltanto il risultato della crisi finanziaria scoppiata Wall Street nell’autunno del 1929 e poi propagatasi a tutto il mondo. Essa fu amplificata in Italia dalla debolezza del sistema industriale e finanziario nazionale e con gli intrecci azionari tra banche e grande industria. Le principali aziende industriali, Fiat e Ansaldo in testa, erano uscite a pezzi dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale.
Certo avevano guadagnato una barca di soldi con le forniture militari ma la successiva riconversione da una produzione di guerra ad una civile le aveva messe in ginocchio. Così, anticipando di 30 anni quella che fu la politica della Mediobanca di Enrico Cuccia (peraltro genero di Beneduce) cercarono di assumere il controllo delle banche verso le quali erano debitrici attraverso la “ingegneria finanziaria”. La Fiat degli Agnelli con il Credito italiano e l’Ansaldo dei Perrone con la Banca Commerciale. La strategia era ovvia: diventare padroni delle banche e utilizzarne le risorse per annullare i propri debiti. La duplice manovra fallì per l’opposizione dello stesso governo fascista. Ma la Grande Depressione in Italia fu l’occasione per impostare un sistema di economia mista che nel secondo dopoguerra favorì il decollo economico dell’Italia. Il nostro Paese non sarebbe infatti mai cresciuto se non ci fossero state le aziende pubbliche, quelle per intenderci delle tanto deprecate Partecipazioni Statali che, tanto per dirne una, realizzarono il sistema autostradale italiano. Certo fu anche una maniera di prendere atto del fenomeno della motorizzazione di massa di cui la Fiat fu la prima beneficiaria. Ma pensiamo che cosa sarebbe successo se l’incarico di realizzare le autostrade fosse stato lasciato nelle mani delle imprese private che non pensano certo all’interesse generale del Paese ma soltanto al loro profitto immediato. Saremmo ancora per le autostrade a livello di Terzo Mondo.
Pensiamo ancora a quello che rappresento l’Eni (Ente nazionale idrocarburi) creato da Enrico Mattei per garantire l’Approvvigionamento energetico al nostro Paese, a tutte le nostre aziende e ai cittadini in genere. Pensiamo a tutti gli ostacoli che il povero Mattei (assassinato nel 1962 dai concorrenti anglo-americani) dovette affrontare e superare per portare avanti il suo progetto. Pensiamo anche agli ostacoli che gli pose spudoratamente una parte del mondo politico italiota, quello della maggioranza di governo legato alle Sette Sorelle. Pensiamo a tutta l’ignobile campagna di stampa che gli scatenò contro sul Corriere della Sera una firma storica come Indro Montanelli con la considerazione che Mattei, pur non essendosi mai arricchito di suo, versava soldi ai partiti, dal Pci al Msi, perché non ostacolassero i suoi progetti e quindi rappresentava un vettore di corruzione. Come se le principali aziende private italiane non avessero fatto lo stesso. E come se le Sette Sorelle non avessero sempre unto le ruote dei politici dei Paesi dove ricercavano i giacimenti di petrolio e di gas. Oggi, gli eredi dei nemici dell’Eni di Mattei di allora, hanno alzato il tiro contro l’Eni che Scaroni ha portato a dialogare fruttuosamente con la Gazprom russa in nome di un’intesa di tipo europeo “continentale”. Un Eni che era riuscito a stabilire una più che fruttuosa presenza in quella Libia che l’attacco degli “atlantici” sta disarticolando grazie anche, e questo è un assurdo, grazie al contributo italiano. Quando si dice l’autolesionismo. Oggi l’Eni, soprattutto dal punto di vista simbolico, è quello che ci resta per testimoniare che un tempo c’era uno Stato sociale e uno Stato imprenditore. Attacchi all’Eni arrivano dai tanti utili idioti in Italia, dalla Commissione europea e dalla Bce. Ieri Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del direttivo della Banca centrale, ha ammonito sul fatto che in Europa “non possiamo più permetterci che un 40% del Prodotto interno lordo venga dallo Stato”. Della serie: vendete l’Eni.

di: Filippo Ghira

f.ghira@rinascita.eu


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