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Quando in libreria mi sono imbattuta nel libro di John Underwood, "Il libro segreto di Shakespeare", mi aspettavo una storia piena di suspense e coinvolgente, spinta anche dalla visione del film “Anonymous”.
Leggendo il libro, però, mi sono resa conto che dell’atmosfera e del ritmo del film il libro aveva un ben poco e a causa della lentezza della narrazione, mi sono ritrovata a chiuderlo dopo un centinaio di pagine. Se l’intento dell’autore era quello di far luce sul “più grande furto di proprietà intellettuale della civiltà”, secondo il mio punto di vista, ha decisamente fallito. Il libro segreto di Shakespeare, infatti, è un libro prolisso, lento, ma soprattutto poco credibile. A partire dalla trama, infatti, il tutto all’interno del libro appare decisamente inverosimile. Innanzitutto c’è da capire perché il giornalista Jake Fleming indaga sulla sparizione di Lewis.
Flamming ha visto Lewis una sola volta e non si è mai interessato alle sue ricerche, cosa lo porta quindi a indagare e a rischiare vita e carriera? E’ vero che Fleming è un reporter, ovvero rappresenta quella categoria di giornalisti che ama scoprire e rivelare verità scomode, ma i motivi che lo spingono a rischiare tutto per Lewis sono troppo deboli, o forse mal costruiti. Gli indizi che dovrebbero portare alla “scoperta”, inoltre, sono troppo dilazionati all’interno della narrazione. Se nel “Codice Da Vinci”, libro a cui “Il libro segreto di Shakespeare” è stato più volte paragonato, i climax narrativi sono costanti e tengono viva l’attenzione del lettore, qui l’unico colpo di scena, intorno al quale è costruito il romanzo, è rivelato attraverso piccole scoperte che l’autore non dota di significato e tensione.
Questa cosa, quindi, rende la lettura esasperante e il lettore invece di prestare attenzione alle piccole scoperte del protagonista, tenderà a velocizzare la lettura e a non dare il giusto peso a indizi importanti. Inoltre i continui flashback sono inseriti nella narrazione al momento sbagliato e soprattutto i primi che il lettore incontra si presentano come una sfilata di nomi e personaggi, che hanno il solo compito di confondere ancora di più chi sta leggendo.
La ciliegina sulla torta, infine, è la presenza della figlia di Flemming all’interno della narrazione, che servirebbe all’autore per dotare il romanzo di una perfetta eroina femminile, ma il risultato che ottiene è quello di dotarlo di una presenza invadente e scomoda. Le continue riflessioni di Flemming su quando sia bella, intelligente e desiderabile la figlia sono snervanti tanto quanto il continuo sottolineare che il nostro protagonista soffre di ulcera. Il problema, quindi, secondo me sta nella solita gonfiatura, che però questa volta, è stato lo stesso autore ad operare. Jonh Underwood, infatti, pseudonimo di Gene Ayres, è un documentarista americano che collabora con alcune testate giornalistiche. Da un punto di vista strettamente letterario ha all’attivo un saggio, “A thief for all time” (2000), che secondo Ayres non ha avuto nessun riscontro significativo perché lui non fa parte della cricca degli ayatollah dell’università. A spingere Ayres a indagare e a scrivere sul mistero dell’attribuzione del corpus dell’opera shakspeariana è stata la sua educazione, in seno a una famiglia di quaccheri, che è stata sempre orientata verso la ricerca della verità e permeata da un forte senso di giustizia. Grazie al fratello, studente di Fisica all’Università di Chicago, che ai tempi dell'università lesse “ The murder of the man who was Shakespeare” di Hoffman, Ayres si interessò al tema e iniziò le sue ricerche. Questo ergersi a paladino della giustizia, secondo me, è stato deleterio per Ayres. Il problema dell'attribuzione del corpus shakespeariano è estremamente interessante, ma l’autore secondo me è inadatto a trattarlo.
Il “thriller”, che è stato rifiutato dagli editori dei paesi anglosassoni, è evidentemente un saggio riadattato a romanzo. Ayres, inoltre, non sembra possedere la padronanza della materia e gli strumenti per trattare questo argomento. La scelta quindi dell’autore di interessarsi al tema è tanto incomprensibile quanto quella del suo protagonista. Almeno Dan Brown è laureato in Storia dell’Arte...Alla Prossima Diana
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