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Si è parlato molto in questi giorni del dibattito che ha attraversato il Sinodo dei vescovi su argomenti come i sacramenti per i divorziati risposati e le coppie omosessuali, temi fino a poco tempo fa considerati tabù dalle gerarchie cattoliche. Prima dell'elezione di Bergoglio, per parlare di questi temi si sarebbe convocato, forse, un Concilio, mentre il papa venuto dalla "fine del mondo" ha deciso di discuterne nell'ambito del Sinodo dei vescovi, istituzione di tipo ordinario chiamata a consigliare il papa nel governo della Chiesa, affermando, con questa scelta, la non straordinarietà del metodo collegiale per l'assunzione delle decisioni. Ma, al di là delle ripercussioni "interne" che il dibattito sinodale potrà avere, mi sembra importante sottolineare, ancora una volta, come le parole che usa Papa Francesco (e non solo nelle ultime settimane), possano far riflettere tutti, anche all'esterno della Chiesa, sotto vari punti di vista: dall'esercizio del potere da parte del vertice di un'istituzione, al rapporto con il potere che tutti noi possiamo avere, all'importanza dell'ascolto reciproco, alla necessità di "parlare chiaro", come ha fatto, ad esempio, nel discorso tenuto ieri alla chiusura dei lavori, quando ha parlato di ciò che di negativo ha visto emergere nel dibattito tra i vescovi: «la tentazione di trascurare la realtà utilizzando una lingua minuziosa e un linguaggio di levigatura per dire tante cose e non dire niente! Li chiamavano "bizantinismi"».
Ma è il discorso nella sua interezza che colpisce, ripeto, al di là del valore e delle implicazioni che ha per il mondo cattolico su alcune materie spinose: è un linguaggio che esprime umanità, autenticità e semplicità, che non lascia indifferenti (qui, il testo integrale).
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