A distanza di pochi giorni dal 150° anniversario dell’unità d’Italia, mi pare opportuno toccare un tasto pertinente sia all’occasione che alla presente rubrica: i forestierismi nella lingua italiana. Perché opportuno? Il 17 marzo e i giorni immediatamente successivi, ho avuto modo di guardare un po’ le strade, i negozi, le abitazioni e il resto del mondo che mi circonda abitualmente. Qualcosa spiccava rispetto al solito: le bandiere italiane. Mi sono subito rattristata. La causa del mio stato d’animo non risiedeva certo nel tricolore o nel suo significato storico, niente affatto! Piuttosto, a infastidirmi era la riflessione sottostante: sono quotidianamente circondata da bandiere a stelle e strisce, da canzonette in altre lingue e da prodotti stranieri di uso comune che non danno per nulla nell’occhio, ma vengo distratta da gagliardetti colorati che dovrebbero apparirmi normali tanto quanto lo sono le innumerevoli insegne statunitensi per i cittadini americani. Perché in Italia non è altrettanto naturale? Perché su questo territorio sono meno strani gli emblemi stranieri che quelli nazionali?
Questi pensieri hanno fatto presto a fare il paio con questioni di vecchia data attinenti all’uso di parole e locuzioni prese “a prestito” da altre lingue rispetto a quella italiana. La sensazione è una: riguardo alla lingua, connessa in modo risaputo al concetto di nazione, avviene – senza alcuno stupore – quanto succede anche in altri ambiti, vale a dire che gran parte degli italiani svende, senza tanti se e tanti ma, buona parte del proprio patrimonio culturale e della propria identità nazionale – la lingua, appunto – in cambio di una parlata che appare nuova, più moderna, al passo coi tempi, giovane, se non anche professionale e dotta. A farne le spese sono parecchie parole ed espressioni linguistiche che cadono in disuso e che, paradossalmente, finiscono per diventare sconosciute e incomprensibili alle nuove generazioni di italiani sempre più avvezzi ai sostituti di matrice estera (chi fosse interessato e si interrogasse, invece, sulla versione italiana di una parola straniera, può – fra l’altro – consultare l’appendice del Wikizionario dedicata ai forestierismi usati nella lingua italiana).
L’opera pregevole svolta dall’Accademia della Crusca in Italia pare sortire effetti minori di quelli raggiunti per le rispettive lingue dall’Académie française e dalla Real Academia Española. Le ragioni, però, potrebbero risiedere anche del tutto al difuori di simili organismi. Sia che dipenda da ragioni di ordine storico, politico o culturale, fatto sta che spesso al lessico italiano in Italia viene preferito quello straniero.
A preoccupare non è l’aggiunta di nuove parole straniere al fianco di quelle italiane o dei più antichi forestierismi entrati nella lingua. Questo, infatti, non può che arricchire la lingua stessa e la cultura di chi conosce e usa tali “nuovi” termini. Ciò, in teoria, può avere solo effetti positivi, come ci si aspetta di solito, a buon diritto, dagli scambi culturali e dalle commistioni.
Ad avere la responsabilità circa le sorti di una lingua, nonché riguardo all’efficacia e all’utilità della stessa sono, in primo luogo, i parlanti e, oggi – visto e considerato l’uso massiccio della Rete, così come, in generale, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e dei libri –, tale destino è affidato anche agli scrittori on e off line.
A volte, i forestierismi riescono a essere più efficaci, diretti e chiari del corrispondente italiano (io stessa ho volutamente preferito, poco sopra, “on e off line” a “in linea e non”), e possono servire a evitare delle ambiguità. Succede, ad esempio, nei casi in cui un certo linguaggio settoriale abbonda di parole straniere. Ciò è facilmente riscontrabile nel linguaggio informatico, commerciale, medico ed è quanto avviene, in generale, all’interno delle attuali comunità scientifiche con l’uso di alcuni anglicismi e poi con la lingua inglese tutta, per comunicare con colleghi stranieri attraverso una sorta di lingua franca (quale fu prima il greco antico, poi il latino e ancora il francese e via di seguito, a seconda dell’epoca e della parte di mondo interessata).
Non è un caso se si fa differenza fra i cosiddetti prestiti linguistici di necessità e quelli di lusso, i primi entrano nell’uso quando diventa indispensabile designare un nuovo referente prima inesistente, sconosciuto o superfluo; i secondi, invece, vengono utilizzati anche se nella lingua di riferimento esiste già il termine corrispondente, ma con sfumature, accezioni e connotazioni in parte diverse dal forestierismo. Allo stesso modo esistono prestiti lessicali integrali (quali, per esempio, kamikaze e cocktail, rispettivamente dal giapponese a dall’inglese) e altri adattati, cioè parzialmente modificati sulla propria lingua. Per non parlare dei calchi!
Non intendo addentrarmi più di così in questioni concernenti la linguistica, piuttosto voglio sottolineare, da un lato, i benefici e la vivacità insiti nel fatto che una lingua si arricchisca di nuove parole ed espressioni e, dall’altro, invitare a non ritenere la lingua italiana inferiore alle altre. Non solo e non tanto per ovvie ragioni storiche, letterarie e culturali, quanto perché ritengo che il prestigio di una lingua sia affidato ai parlanti, a chi la conosce e la usa. Insieme alla lingua si rischia di dimenticare anche tutto ciò che essa rappresenta, con i significanti anche i significati, con le parole la propria cultura. Sarebbe bello conoscere quante più lingue è possibile. Conoscere cosa designano. Cogliere i vari punti di vista, insiti nei diversi modi esistenti al mondo per indicare anche le stesse cose. Confrontarsi. Conoscere per comprendere. Vale tanto per l’estero quanto per la terra natale, per il paese d’origine come per l’altro capo del mondo, per il quartiere di periferia come per Manhattan.
L’ignoranza produce intolleranza e impedisce ogni crescita significativa; perciò, quanto sopra non va letto secondo un’anacronistica e ottusa ottica purista, quanto per quello che è: un invito alla conoscenza e al rispetto delle origini, della cultura e della lingua… anche la propria.