Il maestro di Castelseprio (di Raffaella Asni)

Da Italiamedievale @italiamedievale

Per la festa di San Michele, ogni famiglia di contadini doveva portare un terzo del raccolto sullo spiazzo davanti alla chiesa del borgo. Di buon mattino, il preposto benediva con l’acqua del sacro fonte, i sacchi di orzo e di miglio, le ceste colme di frutta e ortaggi, le capre, il pollame e i maiali. Poi i servi del gastaldo Valperto caricavano tutto sui carri e partivano verso meridione per raggiungere Papia e Mediolanum.
Compiuto il dovere, gli abitanti del villaggio e delle corti sparse in tutta la valle, si accingevano a salire in pellegrinaggio fino al vetusto oratorio, in cima al monte di Gornate. Ripetevano come ogni anno, il rito dell’offerta di cereali e vino all’Arcangelo, che in cambio, accordava la sua protezione contro gli attacchi di demoni e predoni per tutto l’inverno a seguire, quando erano il gelo e il buio a regnare sui boschi e sui campi coltivati, e le masche si aggiravano nella nebbia terrorizzando i viandanti indifesi.
Anche gli arimanni delle antiche fare, che abitavano le sale di pietra e possedevano rustici e bestie in gran numero, erano molto devoti a San Michele e salivano al monte per far benedire le spade, le lance, gli scudi e le corazze con cui prestavano servizio nell’esercito del re.
Con un grande banchetto sul prato intorno al santuario, si celebrava la fine dell’estate e ci si preparava alle notti lunghe e ai giorni brevi dell’autunno, alle fatiche della vanga e dell’aratro, prima che freddo e neve scendessero a coprire il mondo.
Fu all’alba della vigilia di San Michele che i due figli dell’aldio Venanzio scesero il ripido sentiero, alle spalle del borgo, per inoltrarsi dove la boscaglia è più fitta. Ignorando la snaida sull’albero che marcava il confine del gaggio, proprietà delle sante monache di Torba, i due giovinetti si intrufolarono in mezzo ai rovi, a caccia di un porcellino da arrostire sullo spiedo il giorno seguente.
Germano e Fortunato raggiunsero l’argine del fiume, strisciando nell’erba alta. Più in là, nella macchia di querce, si udivano i grugniti dei maiali. Non sarebbe stato facile rubare un porcello, né troppo piccolo, né troppo grosso, ma valeva la pena di tentare. Si avvicinarono lentamente per non spaventare le scrofe che avrebbero potuto aggredirli.
«Hai sentito anche tu quel rumore, Germano?» mormorò il più giovane dei due ragazzi.
«Quale rumore? Io non ho udito nulla…» rispose il fratello sottovoce.
Mossero qualche passo verso il fosso che li separava dal branco grufolante e si fermarono di colpo. Questa volta percepirono entrambi un lamento, che lasciava intuire la presenza di un essere umano, nascosto nel folto dei cespugli.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi Germano avanzò lentamente in direzione del gemito. Ebbe solo un istante di esitazione, pensando che potesse trattarsi di un brigante o di qualche anima dannata che vagava nella nebbia per ritardare la sua dipartita da questo mondo.
Di nuovo si udì il lamento. Dietro un arbusto spinoso giaceva un uomo, avvolto in un logoro mantello di canapa. Aveva gli occhi chiusi e sembrava svenuto. Imbrattato di fango dalla testa ai piedi, il volto coperto da una barba ispida, incuteva un certo timore. I due fratelli non osarono sfiorarlo, né tentarono di rianimarlo. Dopo un primo istante di smarrimento, senza dire una parola, si misero a correre verso casa per avvertire il padre.
«Non l’avete toccato, vero?» domandò Venanzio dopo avere ascoltato il racconto frenetico dei suoi figli.
«No,» rispose Fortunato, serio in viso, «ma siamo sicuri che è ancora vivo, gemeva nel sonno.»
«Dobbiamo andare a vedere, non si può lasciarlo lì a morire, in mezzo ai rovi…» mormorò l’aldio, meditando sul da farsi.
«E se fosse un lebbroso?» si intromise la moglie Faustina, scongiurando il rischio del contagio, con un rapido segno di croce.
«Potrebbe essere un pellegrino, un viaggiatore aggredito da qualche animale selvatico, un soldato ferito…» Venanzio sapeva a quali pericoli poteva andare incontro, se si fosse trattato di un lebbroso o di uno schiavo fuggitivo, ma era uomo pietoso e devoto, perciò decise di scendere al gaggio e soccorrere lo sventurato viandante.
Quando l’aldio giunse al fosso con i figli, l’uomo era ancora incosciente. Sotto il mantello fradicio c’era una grossa bisaccia di cuoio. Aveva il polso destro fasciato da una benda sudicia e insanguinata. La ferita doveva essere profonda e, a giudicare dal pallore del viso e dai brividi che ne scuotevano il corpo, il forestiero doveva avere la febbre alta, però non sembrava ammalato di lebbra o di qualche altro morbo contagioso.
Venanzio aprì timidamente la borsa per cogliere qualche indizio sull’identità dello sventurato. All’interno vi trovò alcuni attrezzi da lavoro, spatole, pennelli e numerosi sacchetti in pelle di capra, contenenti polveri di diversi colori. C’erano anche un paio di piccoli contenitori di terracotta, ben sigillati, che pareva contenessero un liquido.
«Legate il mantello a due bastoni,» ordinò l’aldio ai due ragazzi, indicando i rami secchi di un nocciolo, «dobbiamo portarlo a casa.»
«Ma, padre, potrebbe essere…»
«Taci, Germano e fai quello che ti ho detto.»
Il giovanetto sapeva che gli ordini di suo padre non si potevano discutere e cominciò a staccare i rami di nocciolo con la roncola.
Con la barella improvvisata Venanzio e i suoi figli trasportarono l’uomo, su per il pendio, fino alla loro casupola di legno, prestando attenzione che nessuno li vedesse.
«Sembra più morto che vivo,» commentò Faustina spalancando la porta.
«È vivo, ma brucia di febbre,» disse il marito sottovoce. «Aiutami a metterlo sul pagliericcio.»
Lo adagiarono con cautela, poi la donna gli rinfrescò la fronte con una pezzuola di lino inumidita.
L’uomo si mosse ed emise qualche lamento, ma rimase sprofondato nel torpore.
«Che cosa facciamo?» sussurrò Faustina con aria preoccupata.
«Vai a chiamare la vecchia Gerperta, lei forse saprà come curarlo» suggerì Venanzio.
A quel nome, pronunciato tra i denti, Faustina si segnò due volte e fissò il marito perplessa.
«Dicono che sia una stryx, non possiamo farla entrare in casa, lo sai anche tu che non è neppure battezzata…»
«Lo so che la vecchia Gerperta ha la brutta fama di essere una stryx, ma quando il figlio di Garolfo era in fin di vita, se non fosse intervenuta lei con le sue cure, sarebbe morto di sicuro, anche il gastaldo l’ha chiamata in gran segreto all’ultimo parto di domina Agilmunda, il bambino aveva i piedi davanti, ma si è salvato. Ti ricordi? Non abbiamo altra scelta, Faustina, bisogna tentare di rianimare quest’uomo, altrimenti potrebbero accusarci di averlo ucciso noi e sarà molto peggio per tutti.»
«D’accordo, ma aspettiamo il tramonto, quando farà buio sarà più facile che nessuno si accorga della presenza di Gerperta qui al borgo.»
Ore interminabili trascorsero nella casupola dell’aldio Venanzio. Il forestiero giaceva sempre immobile sul pagliericcio, mentre Faustina alternava le preghiere alla Vergine ai vani tentativi di alleviare la febbre dello sconosciuto.
Suonava il vespero, quando Venanzio bussò alla capanna di Gerperta, che si trovava isolata nel folto del bosco, a quasi mezz’ora di cammino dal borgo.
La vecchia comprese immediatamente che l’aldio aveva bisogno delle sue arti di guaritrice e lo seguì dopo aver infilato in una bisaccia un coltellino, gusci di noce chiusi da fili di lana colorata e una preziosa ampollina di vetro avvolta in un panno.
«È uno dei tuoi figli ad avere la febbre convulsa? L’ha morso un cane rabbioso? Se è stato un cane nero non potrò far niente per salvarlo, se invece…»
«No, non è uno dei miei figli che sta male. Stamattina ho trovato un forestiero giù al fosso, è ferito e svenuto, non sappiamo chi sia né da dove venga.»
La donna era di poche parole, si borbottò qualcosa che Venanzio non capiva e si avviò zoppicando dietro l’aldio.
«Siate la benvenuta in questa casa, domina Gerperta…» disse Faustina sottovoce aprendo l’uscio.
«Ah, non fare troppe cerimonie Faustina, e portami subito dal moribondo,» replicò la vecchia.
Con le sue mani nodose tastò il collo e la fronte dell’uomo, tolse la benda dalla ferita purulenta e cominciò a trafficare dentro la sacca, biascicando parole incomprensibili nella lingua dei suoi antenati. «Devono avere tentato di mozzargli la mano,» dichiarò alla fine, «non so se riuscirà a sopravvivere.»
Gerperta aprì uno dei gusci di noce, che conteneva un unguento biancastro. Versò qualche goccia del liquido giallo dall’ampollina di vetro e mescolò con un bastoncino.
«Non sarebbe stato meglio chiamare il diacono Cassiano? Avrebbe potuto benedire la ferita con la reliquia della tunica miracolosa di san Giovanni.» sussurrò Faustina all’orecchio del marito.
«Aspettiamo, magari la vecchia riesce a guarirlo…» rispose Venanzio sottovoce.
«Sarà il fuoco a farlo guarire, l’unguento da solo non basta,» disse Gerperta, come se avesse udito le parole dei due aldii. Estrasse il coltello dalla bisaccia e arroventò la lama sul braciere.
Senza esitare un istante, Gerperta posò sulla piaga infetta il ferro incandescente, pronunciando più volte la formula arcana: «Ben zi bena, bluot zi bluoda, lid zi geliden, sose gelimida sin.»
Dalla gola dell’infermo uscì lamento strozzato, ma la vecchia continuò a premere il coltello sulla ferita, mentre un odore nauseabondo di carne bruciata riempiva tutta la casa.
«Se la febbre sparisce, vivrà, altrimenti Hel se lo porterà via la prossima notte,» dichiarò la vecchia spalmando l’unguento sull’ustione. «Cercate di farlo bere se ci riuscite, con l’acqua in corpo sarà più difficile che gli venga strappata l’anima,» concluse avviandosi fuori nel buio.
«Vi accompagno a casa, domina Gerperta,» si offrì Venanzio, mentre Faustina riempiva una cesta con pane, fichi secchi e formaggio di capra, per sdebitarsi con la guaritrice.
«Non serve che mi accompagni, conosco la strada,» ribatté la donna, portandosi via la cesta con le vivande. «e mi raccomando, non raccontare a nessuno che sono stata qui al borgo.»
Venanzio chiuse la porta e guardò la moglie con aria preoccupata.
«Fai entrare i figli e mettiamoci tutti quanti in ginocchio a invocare l’aiuto della Vergine,» suggerì lei.
«Lascia perdere le tue preghiere, e dagli da bere piuttosto,» ordinò il marito fissando l’uomo, che rantolava nel sonno, «non hai sentito quello che detto la vecchia?»
«L’ho sentita la stryx che invocava i suoi demoni…» replicò Faustina, segnandosi tre volte. «Speriamo che siano andati via con lei, altrimenti questa casa non avrà più pace, preghiamo l’Arcangelo che li allontani con la sua spada,» concluse e si inginocchiò accanto al pagliericcio dell’infermo cominciando a borbottare una litania.
Giunse il mattino della festa di San Michele. Venanzio portò la sua parte di raccolto sullo spiazzo davanti alla chiesa, si assicurò che lo sculdascio ne avesse preso nota sulla tavoletta incerata e si affrettò a tornare a casa, senza attendere la benedizione e la partenza del carro.
Durante la notte, il forestiero si era lamentato più volte, ma non aveva dato segni di risveglio. Faustina cominciava a dubitare sull’efficacia delle cure di Gerperta e cominciava a ventilare l’idea di ricorre davvero alla reliquia miracolosa di san Giovanni, che un pellegrino aveva portato dall’isola di Pathmos e che il diacono Cassiano custodiva nella pieve dedicata all’Evangelista.
Quel giorno il borgo era deserto. Solo Venanzio era rimasto in casa a vegliare il malato, le cui condizioni parevano immutate.
All’imbrunire, di ritorno dal santuario, Faustina si presentò a casa insieme al diacono Cassiano al seguito e la teca della santa reliquia, avvolta in un corporale di candido lino.
Venanzio non osò aprir bocca, ma era preoccupato che il diacono denunciasse allo sculdascio la presenza del forestiero, intanto Faustina e Cassiano si inginocchiarono accanto al pagliericcio e cominciarono a blaterare una sequenza di litanie.
Dopo un paio d’ore l’uomo cominciò ad agitarsi nel sonno. Dalle sue labbra uscirono suoni sconnessi, diversi dai gemiti flebili di prima. Erano parole, segnali inequivocabili che lo sventurato stava tornando tra i vivi.
«Κύριε Ιησού Χριστέ, Υιέ Θεού ελέησον με τον αμαρτωλό…»
L’aldio e la moglie non riuscivano a comprendere la lingua dello sconosciuto, tuttavia pensarono che dovesse essere un cristiano devoto, poiché trovandosi a un passo dalla morte invocava il nome di Dio, l’unico vocabolo che risultava essere vagamente famigliare in mezzo a quel farneticare.
Cassiano invece, che prima di essere diacono nel Seprio era stato un mercenario nell’esercito dell’imperatore e aveva combattuto in Oriente, capì che l’uomo parlava in greco. «Signore…Gesù Cristo, figlio di Dio… abbi pietà di me peccatore…» tradusse.
Venanzio avvicinò la ciotola con l’acqua alla bocca riarsa del malato, che questa volta bevve con avidità. La febbre sembrava diminuita e finalmente gli occhi si aprirono. Gli unguenti e le formule magiche della vecchia guaritrice, ma soprattutto la reliquia di San Giovanni avevano fatto effetto, perché lentamente l’uomo si riprese. Guardò il polso fasciato, poi indicò di nuovo la ciotola per bere.
«Come ti chiami?» domandò Cassiano, appena si rese conto che il forestiero era in grado di comunicare.
«Theophanes di Bisanzio…» rispose l’uomo con un filo di voce. «I miei colori… dov’è la sacca con i colori?» chiese ansioso.
«Chi ti ha ferito la mano?» incalzò il diacono, mentre Venanzio prendeva la bisaccia logora con le polveri colorate e gli attrezzi, che aveva nascosto dietro ai sacchi di miglio.
«I soldati… dell’Esarca di Ravenna. Credevo di trovare riparo nella Pentapoli, ma anche lì mi hanno perseguitato e ho dovuto fuggire ancora…»
Venanzio non aveva idea di chi fosse l’Esarca né sapeva dove si trovassero Ravenna e la Pentapoli, ma pensò subito che l’uomo si fosse macchiato di qualche delitto. «Se sei uno schiavo, dobbiamo consegnarti allo sculdascio che ti ricondurrà al tuo padrone, altrimenti saremo puniti anche noi…»
«Taci, Venanzio, e non temere,» lo interruppe il diacono, «questo pover’uomo deve avere molto da raccontarci,» disse guardando Theophanes con aria rassicurante, affinché parlasse di nuovo, «e tu, Faustina, dagli qualcosa da mangiare, deve essere molto affamato,» concluse.
«Non sono mai stato schiavo. Sono un pittore fuggito da Costantinopoli. L’eretico basileus ha proibito di dipingere il volto di Dio e dei santi, ma io ho disubbidito alla nuova legge per accontentare la basilissa che è tanto devota alle sacre immagini. In una cappella appartata tra i vicoli del porto Bosforeion, dove la mia signora si recava di nascosto per le sue devozioni, ho disegnato il Cristo Pantocratore circondato dai suoi angeli, ma sono stato scoperto e arrestato. Se non fossi riuscito a evadere dalle prigioni del palazzo imperiale, mi avrebbero torturato e forse ucciso…»
L’aldio ascoltava attento e curioso, anche se la lingua del pittore era incomprensibile. Immaginò che venisse da un posto molto lontano e che si era trovato in grande pericolo, ma non era un criminale, né uno schiavo fuggitivo.
«Dopo la fuga, mi sono imbarcato su una nave di mercanti diretta a Ravenna, ma come ho messo piede sul suolo italico, sono stato arrestato dalle guardie dell’Esarca Eutichio, che si è rivelato iconoclasta ancora più accanito del basileus Leone. Mi hanno risparmiato la vita e condannato al taglio della mano destra, in modo che non potessi più dipingere. Al momento dell’esecuzione ho invocato la Vergine, che non mi facesse morire dissanguato tra atroci dolori, e la Madre di Dio deve avere ascoltato la mia supplica, perché nel preciso istante in cui il boia calava la lama sul mio polso, è scoppiato un violento nubifragio e un fulmine è caduto nel cortile della prigione, a un passo dal carnefice, che è stato leggermente colpito e non ha potuto compiere perfettamente l’atroce dovere. Sono stato rimesso in libertà, alla condizione di andarmene per sempre dalla Pentapoli e da tutti i territori dell’Impero. Così ho viaggiato per giorni e notti, con la ferita al polso, sempre più dolorosa, tormentato dalla fame e dalla febbre. Ho seguito il corso di un grande fiume, ho chiesto qua e là un pezzo di pane ai contadini o ai cacciatori che incontravo, ma ero terrorizzato e non riuscivo a farmi capire da nessuno. Alla fine mi sono perso vagando in mezzo a boschi impervi e brughiere selvagge, in preda al delirio della febbre, sempre più alta, e giunto accanto a un fosso, le gambe hanno ceduto e ho abbandonato il mio corpo sul terreno erboso, in attesa della morte.»
«Ora sei al sicuro,» dichiarò Cassiano, «Dio ha voluto che quest’uomo ti trovasse e ti curasse, come fece il Samaritano. Qui, nel regno del cattolico e piissimo re Liutprando, non c’è una legge che proibisce le immagini sacre, anche se di immagini da venerare non ce ne sono molte nelle nostre pievi…»
«Come è possibile che la ferita al polso sia guarita così in fretta?» domandò Theophanes guardando incuriosito la fasciatura che stringeva il polso.
Cassiano non sapeva che cosa rispondere. Di sicuro la santa reliquia aveva salvato il pittore, ma qualcuno doveva avergli curato e fasciato la piaga con grande abilità. Guardò Venanzio e chiese spiegazioni.
L’aldio rimase ammutolito pensando che prima o poi avrebbe dovuto confessare di aver chiamato la vecchia Gerperta.
«Ho lavato la ferita con l’acqua benedetta» sbottò Faustina, «poi l’ho fasciato, senza smettere mai di pregare… sono pratica di queste cose, i miei figli si feriscono e si graffiano spesso giocando e così sapevo come fare, anche se questa volta mi è sembrato molto più grave, ma con l’aiuto di Dio e di San Giovanni…»
«Brava, Faustina,» commentò il diacono Cassiano, «le tue preghiere sono state ascoltate e anche questa volta potremo celebrare la gloria del Signore che ha concesso il miracolo.»
«Appena la mia mano sarà di nuovo in grado di lavorare, vorrei poter ringraziare Dio di avermi salvato, con l’unico mezzo che ho per farlo: la pittura,» affermò Theophanes. «Potrei dipingere la chiesa di San Giovanni dove custodite la reliquia…»
«A dire il vero, ci sarebbe una piccola chiesa, qui fuori dal borgo,» disse Cassiano, «sulla collina dove le pertiche con le colombe ricordano coloro che sono morti lontano da casa, secondo l’uso antico degli arimanni. È solo una piccola cappella, dalle pareti spoglie, ma vorrei dedicarla alla Santa Vergine e ogni anno celebrare la festa dell’Incarnazione del Cristo, affinché il nostro popolo comprenda la vera fede e non cada mai nelle sacrileghe dottrine di Ario ...»
«Alla luce dell’alba, salirò sulla collina e porterò con me i colori che ho conservato nella mia bisaccia, l’ocra rosata del Sinai, la polvere di blu egizio, la porpora…» annunciò Theophanes, dopo aver bevuto un sorso di latte appena munto dalla ciotola che gli porse Faustina. «Quando sono fuggito da Costantinopoli, stavo dipingendo la vita della Theotokos, ma non ho potuto terminare la mia opera. Forse è qui, tra questa gente, che la presenza della Madre di Dio, ora è più viva, più necessaria… dunque esaudirò la tua richiesta, diacono Cassiano, dipingerò l’abside di questa piccola chiesa dedicata a Santa Maria, fuori dalle porte del borgo.»
In Dei nomine, regnante domino nostro viro excellentissimo Liutprando rege in Aetalia, Christo propitio, anno decimo sexto, die septimo ante kalendas iunias, indictione nona, Gelasius, Sancti Ioanni Evangelistae prepositus , iudicaria Sepriensis, hanc chronicam scripsit.
Racconto di Raffaella Asni, partecipante alla terza edizione di © Philobiblon (2008)

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