il mal di stomaco

Da Paride

Veronica non credeva sarebbe potuta essere così felice. All’inizio era la giostra, che aveva cominciato a girare, piano, cigolando; e l’aveva portata sù, un pò più sù, sospesa a mezz’aria mentre lei si domandava se davvero si poteva essere così leggeri, e se non conveniva scendere, e se si potesse volare, volendo, nel mentre, o anche dopo. Poi, da un certo indefinito punto, la giostra con lei dentro si era fermata, e aveva iniziato a girare il mondo. Lei si sentiva come quel ragazzino che aveva visto una volta da più piccola, in un cartone: un ragazzino che aveva deciso di restare sempre piccolo e poteva restare a galleggiare nell’aria come se nulla fosse; e volava.
Veronica chiudeva gli occhi ritmicamente, come ogni volta che era molto emozionata, e non riusciva a trattenere un sorriso che non era mai arrivata a completare, e che restava sempre un abozzo di sorriso, che dal di fuori poteva sembrava una smorfia, e poteva mettere paura. Veronica non lo sapeva, fosse stato per lei non avrebbe mai sorriso, ma poi certe volte gli altri le davano retta, le raccontavano belle cose, o cose imbarazzanti per loro o per altri, e lei provava una specie di piacere, una certa soddisfazione, quasi una comunione con gli insuccessi del mondo, e dalla pancia le saliva quel mezzo sorriso d’acciaio, che si allargava sulla bocca senza mai salire troppo, e piegandole all’insù le sopracciglia, nello sforzo di trattenerlo, o di capire.
Se si guardava i piedi, quelli restavano perfettamente fermi, a fuoco, la punta dell’uno contro quella dell’altro, nelle sue piccole vecchie scarpe argentate. Se guardava fuori, tutta la gente era diventata una macchia di colori strascinati in cerchio, come se qualcuno ci avesse passato sopra un pennello bagnato mentre la creazione era ancora fresca: e urlavano, ridevano, chiamavano nomi, coperti dal frastuono di una musica che aveva sentito spesso, una delle poche che conosceva; non che l’ascoltasse, lei non ascoltava musica, però quella la sentivi sempre, anche in macchina quando tuo papà ti accompagna a lezione la mattina, da anni la sentiva. E quindi si sentiva meno a disagio, così, anche se non c’era nessuno che gridasse “Veronica!”, lei non ci faceva nemmeno caso, guardava il vortice con un pò di paura mista a onnipotenza; su quel seggiolino c’era solo lei, e solo lei poteva volare, e nessuno poteva prenderla in giro perchè lei da lì non li avrebbe mai e poi mai sentiti, e i loro vestiti non erano migliori dei suoi, e non importava più che lei non avesse la patente, che fosse sleale, che godesse quando gli altri stavano male perchè soffriva quando gli altri stavano bene.
Poi piano piano il mondo si fermò; lei aveva ancora le gambe che tremavano e lo stomaco in gola. Ringraziò francesca molte volte, con la sua voce strana, che saltava di tono all’improvviso in gridolini che strozzavano i nervi e ferivano i timpani. Poi arrivarono alla macchina del padre; nel tragitto Francesca si raccomandò molte volte di non raccontargli niente: lei lo avrebbe fatto lo stesso, se non fosse stato che si era divertita, e si sentiva in colpa anche lei, ed era intrinsecamente eccitata dall’idea del segreto, dell’amicizia, dei sorrisi.
Il viaggio trascorse tranquillo, l’aria era un pò tesa, lei cercava di smorzare il sorriso e continuava a sbattere le palpebre e modellare la faccia in smorfie più serie che sembravano quasi mostruose. Il padre per fortuna non la guardava nemmeno. Ascoltava l’opera su radio tre, e fissava la strada davanti a lui.
Quella notte dormì felice, con una strana sensazione nello stomaco, e i piedi che le formicolavano dall’emozione che non riusciva più a contenere in nessun modo. Non capiva.
Erano le sette e diciotto quando prese la tazza di latte caldo dal microonde e fece per portarla nella sala. Di solito era la madre a prepararle la colazione, mentre il fratello si serviva da solo: lei non ci aveva mai fatto caso, aveva fatto sempre quello che le avevano detto di fare: ma oggi si sentiva ok, poteva fare anche lei quello che fanno tutti. Mescolava il latte e andava verso la porta. Allungò il braccio per spegnere la luce, ma, presa dai suoi pensieri, non riuscì a coordinare il movimento, cadde in avanti contro il muro e la tazza volò per aria; il latte schizzò su tutta la parete, su tutta la busta della spazzatura differenziata, sulla porta e sulle casse d’acqua, per poi riversarsi per terra insieme a mille cocci di ceramica bianca.
Veronica rimase lì, poggiata al muro, al buio, paralizzata dalla paura, in mezzo a quel macello.
Avrebbe voluto piangere ma non ne era capace.


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