Anno: 1977
Durata: 105′
Genere: Commedia
Nazionalità: USA
Regia: Jed Johnson
A Jed Johnson si deve quello che è considerato, a tutti gli effetti, l’ultimo film di Andy Warhol. Il male di Andy Warhol (1976), questo il titolo civettuolo della pellicola, assume nella logica del cinema narrativo i temi tradizionali del cinema underground, soprattutto per quanto riguarda il rifiuto della psicologia e il totale disprezzo per la verosimiglianza. Si narra della storia della signora Hazel Aiken, in apparenza una laboriosa casalinga, che accumula dollari dirigendo un’anonima assassini, tutta composta di ragazze disposte a eseguire i delitti su ordinazione per pochi dei dollari richiesti dalla mediatrice. Nella casa della Aiken vivono anche la nuora di lei, Mary, con un figlio mongoloide e la madre anziana. A volte vi passano ore o nottate le ragazze-killer, come P. G., Glenda e Marsha; un giorno vi si impianta da padrone L.T., un giovanotto che si è reclamizzato con una bella collezione di morti ammazzati e che Hazel intende usare per l’eliminazione di un fanciullo di famiglia borghese anormale. Mentre le ragazze compiono puntualmente i loro feroci compiti, L.T., messo di fronte al fanciullo handicappato, si ribella. Nel frattempo il poliziotto negro Hughes, a conoscenza delle attività della banda Aiken e disposto a proteggerla in cambio di una denuncia ogni tanto o della concessione delle grazie della Aiken che concupisce, viene rigettato e offeso dalla stessa. La uccide soffocandola nell’acqua di un lavandino.
Opera a suo modo deliberatamente primitiva, ai limiti dell’euristica documentativa nella pura materia del grottesco quotidiano e del rovesciamento degli usi sociali, il film di Johnson si realizza nella concretezza iconograficamente stralunata del frammento stilistico ad effetto corale, tentando programmaticamente la descrizione parossistica della pura artificiosità del collasso sociale non attraverso il processo congruente del realismo, ma per mezzo della rappresentazione della rappresentazione, ovvero attraverso la documentazione iperrealistica del modello totalmente falso dell’immagine iterativa di se stessa nell’era della mercificazione capitalistica, fino ad una insostenibilità visiva che trasmoda persino i limiti del suo cattivo gusto. La decodifica della finzione avviene nel momento in cui l’oggetto, ben oltre la retorica dell’immagine comune, eccede fino alla sua assenza inversa di senso nella pratica della pura epifania oggettuale del proprio corpo.
Il film non è un’ipostatizzazione dei postulati di radicalismo teorico di Warhol, ma una descrizione sfrangiata dalla provocazione ironica e da un’impudenza narrativa assai più efficace delle ultime opere di Paul Morrissey realizzate per Warhol, ovvero Il mostro è in tavola, barone Frankenstein e Dracula cerca sangue di vergine e…morì di sete, che hanno tentato con esiti mediocri la contaminazione commerciale col cinema undeground. Diversamente, nel film di Johnson la follia si consuma in uno scenario di inquietante normalità che è tale proprio per effetto della sua esasperazione espressiva, tra individui laidi e mostruosi, in uno scenario pessimisticamente dominato dall’inferno del denaro e da una feroce soggezione alla modernità della tecnica. La metafora di Warhol, che al suo compagno Johnson ha solamente affidato la regia del lavoro (anche se si ritiene che il suo ruolo abbia riguardato solamente la scenografia e le luci), è cupamente lapalissiana, anche se schiarita nei suoi feroci assunti dall’acre umorismo del dialogo; inoltre, e in ciò il film ha una sua perturbante audacia, egli adopera la bizzarria diegetica come strumento di serrata polemica nei confronti del matriarcato americano; attitudine squisitamente misogina, come in fondo per tutte le opere di Warhol, che produce la nausea della femminilità attraverso il disgusto delle sue proprie azioni (ragione per la quale, alle fine, l’ironia non è che un’attitudine decadente). L’originalità dell’opera risiede, ad ogni modo, nella scelta del corpo sociale cui addebitare la nefandezza dei propositi omicidi: non più il mondo sotterraneo e marginale dell’underground, ma la classe media americana e il suo sogno divenuto presto un sozzo incubo autofagocitante.
La scelta del cattivo gusto, mutuata dalle prime opere di John Waters, converge con quella ideologia della putrefazione che individua nella metropoli americana il luogo in cui ogni ipotesi di sana esistenza si degrada fino ad un totale declino psichico della civiltà; per esprimere ciò, Johnson ha dovuto cedere al didascalismo crudele di una rappresentazione programmaticamente anticonvenzionale ed estenuata negli eccessi della sua piega in fondo massimalista (si pensi all’intera sequenza del bambino gettato via dalla finestra e spedito a sfracellarsi sul selciato tra pozze di sangue e brandelli di materia), ma ha saputo altrettanto raccontare un universo a suo modo grezzamente autentico e policromo in virtù di uno stile acerbo (che è in buona misura adeguato al racconto) e dell’ottimo lavoro di montaggio assai affine a quanto lo stesso Johnson, proprio in questo ruolo, ebbe a fare per i film della trilogia di Paul Morrissey.
Beniamino Biondi
Scritto da Beniamino Biondi il apr 12 2012. Registrato sotto CINEMA SOMMERSO, RUBRICHE, TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione