«Ecco. Ricordatemi così». Pensò Domenico. «Io che entro nella cabina delle scandinave. Quattro svedesi bionde e vogliose. Ricordatemi così. Io che entro e loro che scherzano con me, con quel loro accento vichingo, e mi vogliono truccare e vestire da donna, e io che le salto addosso, e loro che ridono, e anche la loro risata ha quello strano accento del nord. Ricordatemi così. Caduto sul campo di battaglia, dopo aver difeso strenuamente onore personale e di patria». Poi lo svegliarono. E a farlo fu un tipo di colore, talmente nero che solo dopo diversi secondi Domenico si accorse che sotto al naso aveva un paio di baffi. Lo svegliarono che non mangiava da tre giorni, forse quattro. Lo svegliarono che aveva un erezione che neanche quando aveva quattordici anni. Non ricordava niente e non avrebbe ricordato neanche dopo. Buio. Il momento in cui i predoni salirono sullo yacht, la reazione del personale addetto alla sicurezza, gli spari, il lancio dei gommoni di salvataggio: niente di niente. Da quella avventura ne uscì con la paga prevista fino a quel punto della crociera, senza neanche un centesimo in più, lo stipendio di un cameriere preso a nolo insieme alla barca, e un’idea chiara, chiarissima; per il resto dei suoi giorni si sarebbe goduto la vita, si sarebbe trovato una vecchia vedova da sposare e avrebbe fatto il mantenuto.
Non era bello, questo lo sapeva, il fisico tarchiato di certi calabresi d’altri tempi, ma poteva migliorare. Non era colto, aveva cominciato a lavorare a diciotto anni, dopo un diploma all’istituto alberghiero di Catanzaro, titolo preso senza troppo impegno, perché di certo non era stupido. E poi aveva un’arma su cui pochi altri potevano contare: un’esotica avventura di pirati al largo della Somalia. Un’avventura che poteva documentare; portava sempre con sé un ritaglio di giornale in cui appariva in foto, con la faccia deperita e l’immancabile barba del naufrago. Un’avventura che avrebbe riempito di particolari inventati, pittoreschi, romantici, eroici, e qualsiasi altra sfumatura capace di sciogliere il cuore di qualche attempata riccastra. Il problema era trovarle. Cominciò a battere le balere, ma la sua intraprendenza spaventava le potenziali prede e allarmava i maturi pretendenti, inoltre i balli di gruppo non sembravano particolarmente in voga nelle classi abbienti. Ciò nonostante, Domenico, decise che doveva farsi le ossa, e una sera accettò l’invito di Loretta, sessantanove anni a luglio, vedova da tre, pensione e casa di proprietà, unico figlio a Londra. Tecnicamente Loretta gli aveva chiesto un passaggio, ma aveva aggiunto che dopo, Domenico, poteva salire a casa sua per bere una sambuca.
Loretta era più moderna nell’arredamento che nell’abbigliamento. La sua antica gonna a fiori, fra il divano Klippan e il tavolino Expedit, sembrava fuori luogo come un risciò in autostrada. Dopo i tradizionali complimenti per la casa, Domenico venne invitato a svestirsi della giacca, come ogni buona madre usa fare, altrimenti dopo, quando esci, ti viene un accidente… ma non era in vena di premure Loretta, almeno non di quel tipo; appena sfilò il primo braccio dalla manica, Domenico sentì una mano calda appoggiarsi sul ginocchio, non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo, sfilò l’altro braccio e sentì la donna terribilmente vicina a lui, a quel punto non poteva fare altro che affrontare la situazione. Sollevate le pupille vide il viso di Loretta deformato dalla vicinanza, come quando guardi qualcuno dallo spioncino della porta, un qualcuno che magari ha avvicinato a sua volta l’occhio alla lente; poteva contargli tutte le pieghe verticali delle labbra, o i peli superflui sopra al labbro superiore, ma non ne ebbe il tempo, perché Loretta gli stampò la bocca sulla sua, e con una forza insospettata costrinse Domenico alla posizione orizzontale. Fu così che Domenico, a trentatré anni, su un divano Klippan due posti, in un quartiere residenziale a nord di Bologna, quella notte perse qualcosa di indefinito, una sorta di seconda verginità. E la carta di credito, quella prepagata, ma di quella se ne accorse solo in seguito, e fu una scoperta molto meno poetica.
Ines la notò in un centro-commerciale, a dire il vero quello che notò fu la collana d’oro, tanto robusta da poter legare, in tutta sicurezza, un motorino al palo, e i numerosi bracciali e anelli, un solo dito risultava spoglio, privo di pietre e metalli preziosi, ma non di civetteria fuori tempo massimo: l’anulare sinistro. Domenico la pedinò, la seguì nell’erboristeria, nella profumeria, dall’estetista, pur di starle alle calcagna comprò un vaso alto come un bambino di dieci anni, un completino intimo di pizzo nero, un trolley rosa con la faccia di un gatto. L’occasione si presentò quando lei, carica come un ambulante a Pechino, perse, o forse lasciò cadere di proposito, una busta, Domenico accorse evitandole il fatale piegamento, e recuperata la merce si produsse in un baciamano provato centinaia di volte davanti allo specchio, e causando, contemporaneamente, la frana di tutti gli altri pacchi. Ines gli raccontò di non essersi mai sposata, ma di aver fatto girare la testa a diversi uomini in passato, compreso un famoso attore degli anni sessanta che Domenico non aveva mai sentito nominare. Era ricca di famiglia Ines, e sola, circondata da centinaia di peluche, ammucchiati sulle mensole con un macabro effetto campo di concentramento. Quella notte dormirono insieme, ma non fecero niente, rimasero abbracciati, addormentati nel mezzo di un racconto di Ines, un racconto tutto paillette e piume di struzzo. La mattina Domenico fu svegliato da un urlo, e poi un altro, e un altro ancora, quasi non riusciva ad aprire gli occhi tanto quelle grida gli provocavano fitte alla testa. Ines gli lanciava addosso spazzole e boccette di profumo, gli strillava di uscire da casa sua. Forse non ricordava nulla, o forse la mattina aveva altri gusti. Domenico capì che era una battaglia persa, raccolse gli abiti con una mano, e con l’altra si copriva il volto dagli oggetti volanti, ma si preoccupò anche di rastrellare una mancia per il disturbo, nello specifico la collana d’oro della sua mancata amante, che analizzata dal compro-e-vendo-oro sotto casa, risultò volgare bigiotteria, falso come i suoi animali di peluche e i suoi ricordi stile Dolce Vita.
Per qualche tempo Domenico bazzicò le associazioni benefiche, come concetto gli sembrava più onesto, in fin dei conti lui era alla ricerca di qualcuna che gli facesse beneficenza, ma scoprì che contrariamene a quanto pensava, quello della beneficenza era sport per giovani idealisti e non per ricche tardone, come facevano intendere certi film. Poi un giorno ebbe l’illuminazione guardando il telegiornale, vide una vecchia matrona intervistata, la scritta in sovraimpressione riportava il suo lungo nome condito da titolo nobiliare, l’ottantenne tesseva le lodi morali e politiche di uno dei candidati alla carica di segretario di Fiore Tricolore, il nuovo partito del rinnovato centro che proponeva l’inedita commistione fra vecchi fascisti e decrepiti democristiani. Ci provò e ci riuscì: si imbucò nel congresso di Fiore Tricolore, come segretario e delegato del fantomatico circolo di Castelluzzu in provincia di Cosenza. Quel posto era il paradiso dei gerontofili: seppur il partito non contasse nemmeno una donna fra i propri eletti in Parlamento, la convention pullulava di vecchie signore. Sobriamente eleganti come carri di Viareggio e simpatiche come malattie veneree. E tutte andavano in giro con il mento alto, la testa all’insù, come se avessero il collo incriccato, e a guardarle veniva da scommettere su quando sarebbero inciampate, cadute a terra rovinosamente, con tanto di bestemmione da borgata antica. Domenico, dopo aver dovuto specificare per l’ennesima volta che non era il cameriere, a seguito dei suoi tentativi di presentazione, se ne fece una ragione e afferrò un vassoio dal tavolo del buffet. Lo sguardo, o meglio il non-sguardo, che quel tipo di gente riservava alla “servitù” lo conosceva bene, per sei anni aveva lavorato nella ristorazione di lusso, per sei anni aveva lottato col senso di frustrazione. Suo nonno paterno era stato comunista, quello materno fascista; la fame e il freddo che avevano patito erano stati gli stessi, ma pensavano, agivano e parlavano in maniera completamente diversa. Una sola parola avevano in comune: “rivoluzione”. E gli davano lo stesso ingenuo significato: nessuno avrebbe dovuto più togliersi il cappello davanti a nessun altro. Ci sarebbero rimasti secchi i due vecchi se lo avessero visto in quel momento, a servire anche quando non veniva pagato, ma Domenico stava facendo altro, qualcosa che quei due pastori rincoglioniti non avrebbero mai potuto capire, stava combattendo una sua personale, viscerale e ineluttabile rivoluzione. «Lurida porca…» Soffiò Domenico nell’orecchio della contessa Alberici dei Folasca-Strozzi. Pur non toccato, il grosso orecchino appeso al lobo ottuagenario oscillò di scandalo.
La signora Canova in Grandini amava farsi possedere davanti al senatore suo marito, un repubblichino che osservava in silenzio le manovre in un angolo della stanza, con gli occhiali scuri nonostante la penombra, e le mani giunte sul pomello del bastone. La Santareggi, vedova del presidente Altomare, amava i giochi di ruolo a sfondo politico; il più delle volte lei era una manifestante femminista e lui un poliziotto manesco. La Renati, erede della nota casa di moda e finanziatrice del partito, era cultrice del classicissimo idraulico, e con Domenico aveva perfezionato la variante dello stagnaro terrone. Alla Tedeschi piaceva farlo in macchina. Alla Perrone addirittura al campo santo. Voleva fare il mantenuto e si ritrovava a fare il gigolò per over-settanta. Guadagnava sì, è vero, ma non era un lavoro stabile e duraturo, considerata anche l’età media della clientela. Anche lui era un precario, come quelli della scuola, come quelli che protestarono in piazza quella volta che la contessa dei Folasca-Strozzi, dalla finestra della sua fondazione, mostrò ai manifestanti il suo nodoso dito medio. Forse doveva cambiare giro, area politica, forse doveva prendersi una vacanza, stare con una donna per piacere… l’idea di toccare una ragazza della sua stessa età, o addirittura più giovane, gli sembrò un’immagine lontana come quella dei ghiacci del polo. Ed ebbe un brivido. «Ecco a lei» disse Paola, la fioraia, porgendogli il mazzo di novantanove rose rosse destinato alla vedova Bernardi, che di anni ne aveva pochi meno. Invece Paola aveva un’età indefinibile. Domenico aveva notato che quando lei gli parlava, il suo tono di voce era più lieve, più delicato rispetto a quello riservato ad altri clienti. Forse aveva un debole per lui. E forse a lui non avrebbe fatto male una scopata pro-bono. Le afferrò la mano, con la scusa dei soldi, le agguantò il dorso, con arrogante sicurezza. Ma lei si ritrasse. Magari fu quella reazione inaspettata, oppure una sorta di scintilla chimica, fatto sta che Domenico ebbe un flashback. Ma non come quelli dei film. Una sola immagine, velocissima, come un gatto che ti taglia la strada. Quella psichiatra, all’ospedale di Mogadiscio, glielo disse che col tempo gli sarebbero venuti alla mente frammenti della sua avventura in mare. E gli disse anche che un’esperienza come quella non si dimentica, e se succede è perché la mente ha voluto farlo, ad esempio perché ricordare risultava troppo doloroso, più di quanto la mente stessa potesse sopportare. Domenico pensava che si trattasse di una cazzata da universitari, di gente che non ha senso pratico, che non ricordava perché aveva battuto la testa, o per via dell’insolazione. Ma quello che aveva visto mentre Paola gli sfuggiva via, era troppo reale per essere un’illusione, quello che aveva ricordato gli fece troppo male per essere uno scherzo della mente: lui che si allontanava col gommone di salvataggio, mentre una svedese, quella che nel sogno gli apriva la porta della cabina, lo implorava di tornare indietro, la disperazione e l’inferno tatuati in faccia, mentre gli spari dei somali si mischiavano alle urla di terrore. E lui si allontanava. «Si sente bene?» chiese Paola. Lui mosse meccanicamente la testa in su e poi in giù. In su e poi in giù. Accanto alla cassa c’era uno specchio, si guardò; era ancora lui, ma dentro no, con un solo morso uno squalo si era portato via metà del suo corpo, un corpo che non si vede con gli occhi e non si riflette negli specchi. Era improvvisamente vecchio, ma non come le sue clienti, era di colpo stanco, ma non come dopo una scopata di lavoro. «Scusa» biascicò Domenico. Paola arrossì: «E per cosa?». Domenico guardò le labbra della fioraia vibrare, ma non percepì il senso di quella risposta imbarazzata. Non era, in fondo, il perdono di quella donna che chiedeva.
Fine