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Il marchio dello Struzzo a cento anni dalla nascita di Giulio Einaudi

Creato il 01 febbraio 2012 da Sulromanzo

 

Einaudi
Spesso i lettori si saranno chiesti l’origine dell’emblema dello struzzo, che contraddistingue i libri Einaudi. Basterebbe una breve navigazione sul web per trovare la risposta: il marchio risale a una serie di emblemi, nel caso specifico quello di Girolamo Mattei, pubblicati a Lione nel 1574 nel volume Dialogo delle imprese militari et amorose di Monsignor Paolo Giovio, vescovo di Nocera.

Il motto fu ripreso (probabilmente ad opera di Mario Praz) dalla rivista fiorentina La Cultura, diretta da Cesare De Lollis e rilevata poi da Einaudi, ancora stampatore, sotto la direzione di Leone Ginzburg.

La casa editrice, infatti, fu iscritta alla Camera di Commercio di Torino il 15 novembre 1933 (il prossimo anno festeggerà gli ottant’anni), e non prese più il nome dalla rivista, come i documenti d’archivio – gli scambi epistolari fra i consulenti più vicini al giovane Giulio – attestano fosse nell’aria, bensì assunse quello (già prestigioso per meriti paterni) del titolare, allora appena ventunenne.

La Cultura conservò il suo marchio, ma esso fu esteso a tutte le pubblicazioni, diventando ufficialmente il logo della nuova casa editrice.

L’emblema voleva affermare la forza della cultura, anche in tempi difficili, contro l’inciviltà e la barbarie. «Spiritus durissima coquit». Letteralmente: “lo spirito digerisce le cose più dure”, o, per riportare le parole del Giovio: “un valoroso cuore ha forza di smaltire ogni grave ingiuria col tempo” (R. Jotti in La Stampa, 6 giugno 1987).

E certamente gli anni ’30 in Italia, quelli del consolidamento del regime fascista, furono tra i più sofferti per le coscienze libere.

Fra il 1934 e il ’35, La Cultura, abbandonò infatti il suo originario taglio accademico, per  trasformarsi sempre più in rivista militante, con una chiara impronta torinese. Per questo fu presa di mira dal regime, che considerò il suo gruppo di collaboratori una vera e propria setta, legata – a partire da Leone Ginzburg, vera anima della rivista e della stessa casa editrice – al movimento clandestino di Giustizia e Libertà. (A. d’Orsi, Una grande città di provincia, in V. Castronovo, Torino, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 611-12).

Il fiduciario 373 dell’Ovra, l’Organizzazione segreta di polizia politica che dava la caccia ai “nemici del regime”, ossia lo scrittore di romanzi rosa Dino Segre, alias Pitigrilli (ebreo torinese parente di alcuni militanti antifascisti), parla con enfasi de La Cultura, in uno dei suoi rapporti, come di “un ago calamitato sul quale si raduna tutta la limatura di ferro dell’antifascismo culturale torinese” (ibid.).

E fu infatti nel ’34 che Cesare Pavese, in seguito all’arresto di Ginzburg, subentrò nel mese di maggio alla direzione della rivista, essendo, fra i vari collaboratori, il meno compromesso col regime.

Ma la sua direzione durò solo un anno: nel maggio 1935, grazie alle missive di Pitigrilli, a Torino ci fu una grande retata che ebbe come fine l’annientamento dell’intero gruppo di Giustizia e Libertà. In seguito al ritrovamento in casa sua di documenti clandestini affidatigli da Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, venne arrestato anche Pavese.

La parabola einaudiana de La Cultura si chiuse nel 1936 d’autorità, con la sua soppressione da parte del regime. Ma lo Struzzo resta tutt’oggi, anche se i tempi sono cambiati e le vicende della casa editrice si sono evolute in varie direzioni.

Afferma Norberto Bobbio, illustre consulente e collaboratore della prima ora: “È uno struzzo, quello di Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia”, e – aggiungo io per esperienza personale di redazione – che sa ingoiare tutto, anche i chiodi.

 


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