Il mecenatismo editoriale
che non c’è.
Accusa e autoaccusa
di Iannozzi Giuseppe
Il panorama editoriale italiano non è mai stato dei più felici; la scusa addotta dagli editori rimane immarcescibile nel tempo, “l’Italia è un paese di poeti”, il che equivale pressappoco a dire che l’italiano è un sognatore, cioè uno sfaticato.
Con una siffatta premessa non si sta puntando l’indice contro un nuovo male; il problema è vecchio quanto conosciuto e dagli editori e da chi fruisce dell’editoria.
Clamoroso fu l’imperdonabile sbaglio che vide i tipi Einaudi, per voce di Elio Vittorini, ricusare l’ormai famoso Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tesoro letterario edito in seguito dall’assai più accorto Giorgio Bassani per conto dei tipi Feltrinelli. Eppure Elio Vittorini – è il caso di ricordarlo per chi non lo sapesse – ingegnò la sua arte seguendo studi da autodidatta, studi che lo portarono a dar vita alla sua opera più famosa, Conversazione in Sicilia; quando si trovò fra le mani il manoscritto de Il Gattopardo non ci pensò su due volte a rimetterlo al mittente. Perché decise così? Elio Vittorini, al tempo della presentazione de Il Gattopardo presso Einaudi, era già minato nella salute; tuttavia ciò non può essere una scusante per il Vittorini di Conversazione in Sicilia, per il Vittorini autodidatta, per il Vittorini di forti simpatie socialiste. Oggi, l’Einaudi non fatica ad ammettere che non pubblicare Il Gattopardo fu un grossolano errore; fortuna nostra, Giorgio Bassani, occhio acuto, si rese presto conto della portata poetica de Il Gattopardo. Elio Vittorini sicuramente era troppo preso da sé stesso, troppo ‘arrivato’ per poter spendersi in un generoso, anzi doveroso, atto di mecenatismo; oggi, che i tempi sono maturi, Il Gattopardo è un tesoro della narrativa italiana, mentre le opere di Vittorini si stanno facendo dimenticare e dal pubblico e dalla critica. Oggi Elio Vittorini, pur avendo lanciato autori del calibro di Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Italo Calvino, Lalla Romano, Mario Rigoni Stern, viene soprattutto ricordato per esser stato colui che rifiutò Il Gattopardo. Una tara pesante questa che si porterà dietro sin tanto che qualcuno avrà memoria di lui, Elio Vittorini.
Tuttavia non sempre la storia con la S maiuscola riesce a dare a Cesare quel che è di Cesare: l’editoria è corrotta ab imis da tempo immemorabile, una corruzione tutta intellettuale che si fa promotrice di libri massivi e facilmente commerciabili, di libri dai contenuti vuoti, tant’è che sono così facilmente assimilabili che vengono comprati (digeriti e poi espulsi dalle parti basse) tanto dall’intellettualoide quanto dal fruttivendolo, che il più delle volte ne usa le pagine per confezionare i soliti carciofi urlati al mercato “senza spine!”. Ma poi arrivi a casa e ti trovi fra le mani un prunaio e null’altro.
Il mecenatismo editoriale non esiste più; e forse è il caso di dire che non è mai esistito se non a un livello di mero clientelismo già ravvisabile tra i più grandi e sedicenti mecenati della storia. Una ventata di novità è stata portata avanti nel Sessantotto: il mondo della comunicazione – come del resto il mondo nella sua totalità – fu messo a ferro e a fuoco da “chi voleva un mondo migliore”; lo spirito di contestazione si fece sentire anche nell’editoria, e finalmente il mercato propose qualcosa di veramente originale anche per conto di prestigiose case editrici.
In America la rivoluzione editoriale iniziò negli anni Cinquanta: la cultura della Beat Generation propose nuovi valori, nuove forme di comunicazione, nuove forme di editoria. Lawrence Ferlinghetti, radici italiane nel sangue, grande poeta beat, negli anni ’50 si rese conto che l’America era l’America, un sogno e nulla di più; Ferlinghetti, poeta ma anche spirito pragmatico, fondò la City Lights di San Francisco, una piccola casa editrice, che fece conoscere al mondo intero gli autori beat che ancor oggi riscuotono un successo senza confini. Senza Ferlinghetti, con tutta probabilità, la Beat Generation sarebbe morta nel tempo che di solito si riserva alle mode passeggere, quelle che poco o nulla hanno da dire… ma la Beat Generation aveva ed ha ancora tanto da dire.
Gli anni Settanta dell’editoria Americana ritornano alla solita solista stagnazione del culto-sogno-americano, mondo dorato dove tutto è possibile e proprio perché possibile diventa impossibile, un paradosso quasi, ma non per l’America. A riprova di ciò, l’esempio più classico ed inquietante di una America incivile quanto bassamente colta ci è dato da Charles Bukowski, poeta e romanziere che in suolo americano non trovò conferme; la sua levatura artistica fu scoperta dall’Italia negli anni Ottanta, e Feltrinelli lo lanciò, si può dire tra quelli che contano veramente nel panorama letterario internazionale. Oggi Charles Bukowski è ammirato scrittore e in Italia e all’Estero, anche se qualcuno ama definirlo un “porco con l’anima”, a torto o a ragione, non è dato di sapere. Però scrisse Bukowski di sé che “per me, l’Arte è l’equivalente di una parolaccia usata da un mucchio di gente che ha paura di guardarsi in faccia; invece io mi guardo, temo di far schifo e mi va bene così, perché faccio il mio modesto gioco e lascio stare le cose più grandi di me.” Oserei dire una lezione di vita non da poco. L’Italia per una volta è stata capace di ricoprire il ruolo di mecenate.
In Italia il Gruppo ’63 e il Gruppo ’68 si adoperarono per proporre nuove forme panottiche di comunicazione: come non ricordare il giovane poeta sperimentale Dario Bellezza, il romanziere Sebastiano Vassalli (tornato in auge dopo la pubblicazione del romanzo La Chimera, premio Strega – fino a qualche anno fa tutti si erano dimenticati di lui, e lui stesso si era dimenticato di essere uno scrittore, tant’è che per molti anni la sua attività fu quella di venditore di enciclopedie), il professore saggista Edoardo Sanguineti… L’editoria si scosse: nuove forme di comunicazione furono date in pasto ai comuni mortali e agli intellettualoidi con tanto di numero di serie, ma ciò che conta è che qualcosa cambiò; ci si rese conto di essere stanchi delle solite panzane romanzate in bello stile classico: la dimensione di rinnovamento fu in Italia una moda passeggera e come tale si estinse, giusto un fuoco fatuo.
Oggi chi scrive, scrive con toni nettamente classici, o per dirla tutta, lo scrittore moderno è in primis un qualunquista, uno che scrive su commissione e che partecipa a tutti i talk-show televisivi perché ha una bella faccia fotogenica; non mancano i veri intellettuali, però anche loro si fanno forti del loro nome come un marchio di fabbrica e propongono al pubblico le solite menate intellettuali trite e ritrite giocando col vocabolario, inserendo, con calcolo premeditato, un qualche solecismo nei loro scritti, affinché fra marchi di fabbrica si possa inscenare una diatriba semiologica.
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