Non sono solo incapace di stilarle, sono decisamente ostile alle classifiche. Classificare non è difficile, è impossibile. Classificare è male.
Quindi, segnalerò tre dischi per categoria. Le categorie le invento io, ovviamente, sennò che ci sto a fare? Sarà un post lunghissimo. Che noia.
Quelli una spanna sopra gli altri.
Ovviamente lei, PJ Harvey, che probabilmente non sbaglierebbe un colpo nemmeno se volesse. E’ ancora la migliore, c’è poco da dire. Lei, l’autoharp, John Parish e Mick Harvey: Let England Shake è imprescindibile.
Altra, ennesima conferma sono i Wilco. 16 anni dal primo album e non sentirli. Ammetto che in qualche modo sto lì ad aspettarli al varco e poter dire “ecco, finiti i tempi di Yankee Hotel”. Ci ho provato anche stavolta, dopo i primi ascolti. Ma poi non ce n’è e anche con The whole love hanno vinto loro. Bravi.
E dopo due veterani ecco l’esordio più sorprendente. I Wu Lyf (World Unite! Lucifer Youth Foundation), venuti da Manchester e circondatisi di quel mistero che evidentemente funziona, sono più di una band. Sono in 4 ma sono anche di più, sono musicisti ma anche un collettivo di artisti. Il loro primo album, Go tell fire to the mountain, è fulminante. Sono quasi pronto a scommettere che non si ripeteranno mai, perché è tutto troppo perfetto, ma in fondo chi se ne frega?
Quelli che sono cantautori.
Nelle sottocategorie una barba una voce una chitarra e ex componenti di band anni Novanta alle prese col proprio album solista, il top è stato J Mascis, leader dei Dinosaur Jr che per la Sub Pop ha pubblicato Several shades of why, un album quasi totalmente acustico, lontano dalle ottime rumorosità a cui ci aveva abituato con la band. La voce è sempre quella.
E sul disco di J Mascis c’è lo zampino di Kurt Vile, che col suo Smoke ring for my halo butta giù una serie di citazioni, tiene un profilo basso, non fa gridare al capolavoro e poi, piano piano, si insinua per restare.
Colour of the trap è l’ottimo esordio di Miles Kane, ex Rascals e compagno di giochi di Alex Turner degli Arctic Monkeys, che peraltro mette lo zampino come autore. Dentro c’è lo spirito dei grandi: i Beatles sponda Lennon (come potevano mancare? è pure concittadino), i Kinks, Paul Weller. Dentro, nei cori di My Fantasy, c’è pure Noel Gallagher a fare la cosa migliore a firma di un ex Oasis, nell’anno che senza gli Oasis ci ha portato due album di ex Oasis. Un incubo riuscito.
Quelli che comunque anche questo è un buon album e una ragione ci sarà.
E’ la categoria di quelli che forse le cose migliori le hanno già fatte, però continuano a lasciare il segno.
E’ la categoria degli Arctic Monkeys, che tutti a dire che va beh ma non ci sarà più un Whatever people say… e va bene sì, ma che palle, questi hanno fatto 4 album che la maggior parte dei gruppi manco se li sogna in saletta e al quarto, Suck it and see, avranno pure rallentato e tirato un po’ il fiato ma hanno infilato una dozzina di canzoni – ebbene sì, canzoni – di tutto rispetto.
Stessa storia o quasi per gli Strokes. Per chi esordisce col botto, il dopo è sempre in salita. Ma una volta che uno si rassegna all’idea, magari capita che si gode i dischi belli e basta, ché mica si può sempre fare i botti. A me Angles è piaciuto.
E poi ci sono i Low, che in realtà farebbero parte della prima categoria ma la terzina era completa quindi ce li metto qua, ché non citare C’mon non si può.
Quelli che sono ancora negli anni Settanta e però.
I Decemberists se ne son venuti fuori con un album che a tratti suona come Michael Stipe interpreta Neil Young. Davvero, immaginate i REM che coi loro suoni rifanno Harvest, non sarebbe bello? Lo sarebbe, a sentire The King is dead.
Di Portland anche loro come i Decemberists, i Blitzen Trapper si sono divertiti anche loro a giocare col folk anni settanta, con una spruzzatina di southern rock che non guasta, se uno ci sa fare. Ecco, American Goldwing dimostra ancora una volta che loro ci sanno fare.
Helplessness blues, se possibile, è meglio dell’album d’esordio. Stavolta, paragonare i Fleet Foxes a CSN&Y sarà anche azzardato, ma non troppo. E’ abbastanza evidente che l’ispirazione arriva (anche) da lì.
Quelli che in realtà sono quelle: le donne.
Detto di PJ Harvey, sono uscite altre ottime prove di donna.
Florence ha fatto il bis. C’è ancora qualcosa che non mi convince, ma non so bene cosa. Il punto è che lei è impressionante, brava e carismatica. E quindi Ceremonials lo si ascolta, anche se alla lunga la sensazione è che rimanga solo lei, Florence, e poco altro.
L’innamoramento di quest’anno si chiama Annie Clark, meglio nota come St Vincent. Incidentalmente, il suo Strange Mercy è un grande album. Faceva parte dei Polyphonic Spree, peraltro.
Di lei avevo adorato The Reminder. Era il 2007. Nel 2011 è uscito Metals e Leslie Feist si conferma una delle cantautrici più interessanti.