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Il Mercante di Libri Maledetti – La recensione

Creato il 09 novembre 2011 da Fant @fantasyitaliano

Qualche post fa mi ero limitato a raccogliere qualche opinione su “Il mercante di libri maledetti” per convincere qualche povero cristo a spendere diversamente i soldi che avrebbe buttato in questo libro. La cosa che alla fine mi ha convinto a recensire il romanzo è l’arroganza strisciante dell’autore che non si è lasciato sfuggire un’occasione per paragonarsi ad Eco o, più recentemente, ad una sfilza di autori con le opere dei quali il suo romanzo ha da spartire solo il tipo di carta su cui è scritto. E forse nemmeno quello. Nello specifico, il pezzo su Carmilla è allucinante. A lungo mi sono stropicciato gli occhi. Non avevo mai visto tanta masturbazione in un solo articolo. In un post firmato dall’autore stesso, Simoni parla de “Il Mercante di Libri Maledetti.” Ci spiega, “CON PAROLE SUE”, a quali illustri precedenti il suo romanzo debba essere paragonato e quali siano le sue fonti d’ispirazione. Manco fosse un animatore piacione, lancia strizzate d’occhio al pubblico femminile ricordando che: “Il fascino controverso di Ignazio da Toledo (il protagonista) ha conquistato da subito lo staff del mio editore – per buona parte femminile.” Vedremo quale sia la fonte di questo fascino controverso del protagonista de “Il Mercante di Libri maledetti”( mai titolo è stato più calzante). Malgrado io consigli la lettura del libro come un colpo di mattoni sui denti o come un bagno rilassante in una vasca colma di piranha, per correttezza avverto gli avventori che la recensione contiene parecchio spoileraggio. Uomo avvisato/mezzo salvato. O anche no, visto che perdere ‘sto libro equivale a salvarsi per intero.

La recensione del libro maledetto

Cominciamo dal prologo che contiene già un Pov ballerino con tanto di introspezione stile Evil Lord:

Il carro si fermò. L’oscuro cocchiere scese a terra e scrutò l’abisso. “Ora l’unico a sapere è Ignazio da Toledo”, pensò. “Bisogna trovarlo”. Portò la mano destra al volto, toccando una superficie troppo fredda e dura per appartenere a lineamenti umani. Con un gesto quasi riluttante, strinse la presa sulle gote e rimosse la Maschera Rossa che nascondeva la sua vera faccia.

Lasciamo correre che nemmeno un rincoglionito pensa a quel modo. Facciamo passare pure il momento Evil Lord (manca solo la risata di malefico compiacimento: Buahahahaah), ma… il Pov che era partito con il personaggio inseguito e finisce con quello dell’inseguitore? Ecco allora, per grandi e piccini, il ritorno dell’orso Pov ballerino. Animale mascotte dei migliori romanzi italiani:

orso danzante

Non è carino?/ è l’orso del Pov ballerino

La descrizione del protagonista  è fornita a priori (a ‘sto punto inseriamola nelle note o in quarta di copertina), dunque staticamente, quando il personaggio non è ancora entrato in scena.

“Chi fosse realmente Ignazio da Toledo, nessuno avrebbe saputo dirlo con certezza. A volte fu giudicato saggio e colto, a volte infido e negromante.”

“Come ti pare Mario ultimamente?” “Buh, mi pare un poco negromante.” Rendo di pubblico domino che “Negromante” sarebbe un sostantivo, non un aggettivo. La descrizione fisica è pure peggio:

“ma erano gli occhi a catturare l’attenzione: smeraldi verdi e penetranti incastonati fra rughe geometriche.”

In meno di una pagina il Pov passa da Uberto (che ha la sfiga di aprire il portone ad Ignazio) passando da Rainerio da Fidenza, a Uberto (che descrive Rainiero) per poi passare nuovamente a Rainerio. Nel frattempo i cliché fioccano. Com’è giusto che sia in ogni romanzo, dato che solitamente gli autori italiani si rifiutano di leggere romanzi scritti da altri autori e, dunque, ignorando la cosa, il protagonista finisce per avere sempre, inevitabilmente “lo sguardo penetrante.”

“continuò Rainerio, notando come il mercante si fosse accigliato,

Dopo la breve parentesi, il punto di vista ritorna ad Uberto. E’ attraverso i suoi giovani occhi che lo scrittore si sente in dovere di informarci che :

“Proprio allora Uberto stava interrogando alcuni monaci sul conto dei due visitatori, che non aveva mai visto prima. Un confratello gli stava rispondendo sottovoce: «L’uomo alto con la barba e il cappuccio è Ignazio da Toledo. Si dice che durante il sacco di Costantinopoli abbia messo le mani su alcune reliquie, ma anche su libri preziosi, certi addirittura di magia… Pare che abbia trasportato il bottino a Venezia, ricavando grandi ricchezze e il favore della nobiltà di Rialto. Ma in fondo è un buon uomo. Non per nulla era amico dell’abate Maynulfo. Avevano un intenso rapporto di corrispondenza»” “Il mercante sorrise.

Uberto, incuriosito ed intimorito dalla fama del mercante gli viene presentato:

«“Mio signore”? Non sono un alto prelato! Chiamami per nome e dammi del tu».”

“Ah, ma diamoci pure del tu.” Tanto non siamo dei personaggi di un romanzo d’ambientazione medievale, anzi, sai che ti dico?  ”Yo fra, dammi pure il cinque, motherfucker!”

baby-gangster

Il novizio Uberto, saluta l'informale Ignazio da Toledo

La perla del capitolo è però rappresentata dalla figura di Hulco. Quando ho letto non ci potevo credere. Ispirarsi va bene, talvolta va bene pure copiare, se lo si sa fare o si è bravi a non farsi sgamare; ma prendere un personaggio per i capelli ed infilarlo nel proprio romanzo è vergognoso. Hulco è la copia sputata di Salvatore del “Il Nome della Rosa”:

 “Uno strano figuro si avvicinò ciondolando, ingobbito per via di una fascina caricata sulle spalle. Sembrava che la pioggia non lo infastidisse. Non era un monaco. Un villano piuttosto, o meglio, uno di quei servi casati cui venivano affidate le faccende pratiche del monastero. Doveva essere Hulco. Farfugliò qualcosa in un vernacolo incomprensibile. Rainerio, visibilmente infastidito dal dover impartire ordini al servo in prima persona, parlò come se stesse addomesticando un animale: «Bene, figliolo… No, lascia stare la legna. Appoggiala lì, lì. Bravo. Prendi una carriola e aiuta i signori a portare questa cassa alla foresteria. Sì, là. E bada a non farla cadere. Bravo, accompagnali». Cambiando espressione, si rivolse di nuovo agli ospiti: «È rude, ma  mansueto.”

È gobbo, cammina goffamente, è rude ma mansueto e, soprattutto, parla un vernacolo incomprensibile, esattamente come Salvatore.

salvatore

Salvatore

salvatore

Hulco

Per farci dimenticare di questa furbacchionata (ma non hai capito la citazione? no, motherfucker, non voglio capire la citazione ) nel paragrafo successivo Il Simoni ci regala alcune preziose descrizioni degne di un tema di prima elementare:

“La foresteria era edificata quasi integralmente in legno, con le pareti rivestite da graticci di incannicciata.”

E una battuta di dialogo dal tono prettamente medievale (leggasi accoglienza albergo 4 stelle a Riccione):

«Per qualsiasi cosa chiedete pure a me. Buona permanenza».

Visto che il Simoni si è preso la briga di prelevare di sana pianta un personaggio, non poteva anche copiare anche le espressioni medievali?

Il secondo capitolo, di una tristezza infinita, vedrà il narratore nei panni di un ladruncolo ottimamente caratterizzato:

“Si guardò intorno con lo sguardo grifagno, le pupille luccicanti nel buio.”

E la mascherina da ladro? Il sacco della refurtiva con il simbolo del dollaro dove lo avrà lasciato? Il mistero si fa cupo. Ci prendono per il culo o ci prendiamo per il culo da soli? Alla fine apprendiamo che la creatura è nient’altro che Hulco. Sti cazzi. La suspense oramai si taglia con il coltello, tanto che sono costretto a somministrarmi dell’oppio per calmarli. O per farla finità… deciderò presto.

“Chiuse il piccolo dittico dalle superfici cerate su cui aveva stenografato e uscì tirandosi la porta dietro le spalle.”

La stenografia, conosciuta presso gli antichi, nel medioevo era caduta in disuso, bastava consultare wikipedia (versione maledetta) per ottenere questa conoscenza esoterica. Ma poi su “una superficie cerata”? La stenografia serve per scrivere velocemente, annullando lo scarto temporale tra ciò che viene dettato e ciò che si scrive. Che senso ha scrivere con un metodo veloce se poi si è costretti a rallentare sulla cera? A questo punto si sentiva la mancanza di qualcosa che abbonda nei gialli medievali. Parte così un capitolo all’insegna delle dissertazioni teologiche avariate. Ignazio afferma di fronte ad uno sdegnato quando fastidioso Raineiro (a proposito, un nome più leggibile no?), che tutte le reliquie sono dei falsi. Apriti cielo: l’abate s’incazza. Poi però, come se nulla fosse, da la colpa alla barbarie dei tempi e così continuano a discutere del fantomatico segreto che nascondeva Maynulfo, il precedente abate, ritrovato morto di stenti perché amava digiunare in eremitaggio.

orso con cappello

Danza danza, l’orso del Pov ballerino/ Qui c'ho pure il cappellino!

Alla fine il dialogo si rivela in tutta la sua inutilità e sciatteria. Zero conflitto: la storia langue. Parte un capitolo con Willalme, l’assistente di ‘Gnazio a cui era stata affidata un’importante missione nel capitolo precedente e pensavamo perso chissà dove. Ammirate la potenza di un punto di vista così farneticante da rendere dubbio pure il significato di quanto accade:

“Mentre il francese era immerso in tali pensieri, il barcaiolo osservava fra una vogata e l’altra il fodero di una spada ricurva che spuntava dal suo mantello. Sembrava l’arma di un saraceno. Fece attenzione a non farsi notare, tuttavia la sua espressione incuriosita non passò inosservata. Willalme si voltò di scatto, lo trapassò con un’occhiata gelida e ricoprì la spada con un gesto secco. Il barcaiolo distolse rapidamente lo sguardo. Nessuno, neppure un cane rabbioso, l’aveva mai guardato in quel modo.”

Chi guarda chi è chiaro solo alla seconda lettura. Inoltre il punto di vista si alterna tra i due senza decidersi. Nel mezzo, il lettore frastornato maledice i libri tutti, e il giorno in cui è nato. Del resto, come è testimoniato anche dal capitolo successivo, la regola di fondo della narrazione pare essere: se arriva un nuovo personaggio (solitamente appare random), descrivilo e poi descrivi tutti gli altri dal suo punto di vista:

 “«Ho sentito parlare di voi, mastro Ignazio. L’abate Maynulfo da Silvacandida vi teneva in buona considerazione». Il monaco si interrogò sul malumore che scuriva le occhiaie di Rainerio. Pareva contrariato e non gli spiaceva affatto vederlo in quello stato.”

Nel frattempo Willy si lascia incantare dal paesaggio. Assistiamo ad una tragica scena in cui è rapito dal biancheggiare dei cirri.

Comècomenonè, tra un dialogo insipido e l’altro, il Mercante Ignazio esce in compagnia del monaco Gualimberto. Avvista il gobbo Salvatore-Hulco ed un altro mentecatto intenti a complottare, giusto per intrattenerci mentre il Simoni pensa a quello che succederà dopo. Ma ‘Gnazio la sa lunga, capisce subito che se due uomini lo guardano torvo per venti minuti buoni, intervallando occhiate furtive alla stanza dove ha nascosto un tesoro, allora deve esserci sotto qualcosa. Decide di giocare un brutto tiro ai due simpaticoni ritornando in fretta nella sua stanza. Tanto per toglierci ogni dubbio su quello che sta avvenendo (chiunque non sia affetto da cretinismo come i personaggi del romanzo ha già capito tutto), il capitolo successivo viene dedicato ad Hulco et co, che rivelano i loro loschi piani spiegandoceli in ogni minimo particolare. A questo punto il Gobbo, con le consuete occhiate furtive da banda bassotti, s’inoltra nella stanza del mercante per trafugare il tesoro. Peccato che ‘Gnazio da Toledo la sappia lunga e sbuchi dal nulla facendogli un bel taglio sulla faccia. Hulco non può credere che il mercante sia riuscito a fregarlo:

“Com’era potuto entrare così in fretta, senza che Ginesio fosse riuscito a trattenerlo? Quell’uomo doveva essere un negromante se riusciva a muoversi come un gatto.”

Ancora una volta torna questa parola, stavolta risulta chiaro che se ne ignora il significato. A quanto pare i due sono più cretini di quanto non fosse già noto. Peccato che quanto prendono la parola il loro tono è lo stesso di gente ben istruita come il mercante e l’abate. Nello specifico, Hulco era stato presentato come un uomo rozzo che parla in vernacolo, invece sembra parlare “bene” almeno quanto gli altri.  Dalla scena ricaviamo pure che Ignazio non è uomo da prendersela coi più deboli. Armato, contro un gobbo, per giunta scemo. Prendiamo due piccioni con una fava ed ammiriamo il Mercante fare sfoggio delle abilità linguistiche:

“«Credi veramente che un tanghero della tua risma riesca a farmela sotto il naso?».”

Porfobbacco, marrano!

Ora sì che si parla medioevalo, mio signore. Metti la mano su questo lo pietrone, tanghero!

Comunque non è ancora chiaro come il mercante abbia fatto ad entrare nella sua stanza prima di Hulco (forse perché il gobbo è lento e goffo?). Per fortuna il capitolo successivo ci restituirà il dono del sonno, stavolta con il punto di vista del giovin Uberto, il nuovo pupillo del mercante che ci toglie ogni dubbio:

“Un attimo prima aveva notato un uomo sbucare dal retro del Castrum abbatis, correre verso la foresteria e arrampicarsi su una scala esterna che fiancheggiava l’edificio.”

Una scala! Perdinci, questo Mercante di Toledo deve essere un diavolo. Che genio! Fanno bene tutti a temerlo e ad elogiarne la furbizia. Ricordiamoci anche che per far capire quanta sagacia ci sia nel corpo di quest’uomo c’è un trattenendo un sorrisetto volpino a pag. 24. In seguito, ad opera di un monaco vecchio quando insopportabile (in realtà piazzato solo per infodumpare la backstory del mercante) ci viene rivelato che:

“«Tutto era cominciato nel 1202, quando il mercante di Toledo aveva conosciuto un certo Vivïen de Narbonne, un monaco girovago di dubbia fama. I due ebbero l’ardire di mettersi in affari con un alto prelato di Colonia, forse l’arcivescovo in persona. Gli mostrarono alcune preziose reliquie, recuperate chissà dove in giro per il mondo».”

Dunque da questo prolasso di spiegato/raccontato, apprendiamo che il mercante era amico dell’ex abate e che aveva trovato rifugio presso il monastero molto tempo prima. Nonostante questo, però, non aveva mai avuto modo di vedere la biblioteca. Cosa assai strana. Del resto non è l’unica cosa strana: la biblioteca è infatti la più scassata che si sia mai vista in un monastero, uno dei compiti del quale (ora et labora dice nulla?), ricordiamolo, sarebbe tenere in buono stato i libri. Qui invece i libri sono immersi nell’umidità, mangiati dalla muffa e rosicchiati dai topi. E, quel che è peggio, nessuno si stupisce della cosa. Senza fare alcuno sforzo, ‘Gnazio scopre che il vecchio abate in realtà è stato assassinato, probabilmente da Raineiro e da un losco figuro di come Scipio Lazarus (sob!). Il mercante comincia così temere per la propria incolumità, per lasciare il monastero più assurdo di sempre, si deve però attendere il ritorno del suo assistente Willalme, oramai tralasciato da ‘Gnazio in favore di un nuovo amichetto. L’amicizia tra i due ci viene introdotta con la consueta abilità narrativa:

“Passeggiando per la corte, gli capitò spesso di incontrare il giovane Uberto. Dagli iniziali saluti, i due presero a conversare finché non strinsero una particolare amicizia che ricordava quasi un rapporto fra discepolo e magister.”

Uberto viene dunque eletto a ruolo di comprimario. Occorre dunque una descrizione psicologica per festeggiare l’evento e procurarci  brividi freddi lungo la schiena. Mi dispiace, ma non è possibile che uno scrittore di romanzi medievali affermi una cosa del genere:

“(Uberto) Era troppo razionale per subire il fascino della vocazione.”

Cosacosa? La razionalità medievale sarebbe un ostacolo per la fede? Sant’Agostino, San Tommaso e tutti i santi filosofi dicono qualcosa a Mr. Simoni? Apprendiamo ora che un ragazzino è troppo razionale per subire il fascino della vocazione, quando nel medioevo l’unica forma di razionalità è quella della fede. Ergo, seguendo la logica aristotelica, Simoni non è uno scrittore di thriller medievali.

Non ho parole… Del resto, poche righe dopo, anche la consecutio va a farsi fottere bellamente:

“Uberto ne fu entusiasta. Fin da allora comprese che Ignazio non era un uomo comune.”

Magari: “Fu allora che comprese che Ignazio non era un uomo comune.” Alla fine i due instaurano un rapporto così intimo che Ignazio decide di portare con sé Uberto. Il lettore smaliziato sospetterà intenti a sfondo sessuale, che io non confermo né smentisco. Segue altro capitolo con dialoghi privi di spessore e i due, anzi tre, perché Willy è di ritorno, partono per Venezia… L’abate Raineiro, ormai assorbito dal ruolo di Evil Lord del romanzo, confabula tra sé e sé, riuscendo, se non altro, a ricordarci che le sequenze in cui i personaggi pensano (e pensano molto male) sono le peggiori di tutto il libro:

“Avevano fallito in un compito molto semplice, e lui era stato quasi scoperto: sarebbe bastato che Ignazio, puntando il coltello alla gola di Hulco, avesse chiesto il nome del suo mandante… Per fortuna il mercante non l’aveva fatto. Doveva aver supposto che i due ceffi avessero deciso da soli di penetrare nel suo alloggio. Quello era uno dei vantaggi di essere abate, era raro che si venisse sospettati di qualcosa.”

Oh, scemo! Ma che razza di vantaggio è che non si è mai sospettati di nulla perché si è un abate, immaginiamo questa situazione:

“Chi ha preso rubato le mie mele cotte?” Esclamò l’anziano monaco piangendo disperato. L’abate si guardò attorno. Il suo sguardo s’illuminò di una luce furtiva.  ”E’ stato Uberto,” Ghignò, celando uno sguardo volpino. “L’ho visto che ne mangiava una in cortile. “Il vecchio monaco claudicò in cerca di Uberto. “Eccellente!” Ghignò l’abate, rimasto solo. Tutto era andato secondo i suoi piani, nessuno avrebbe sospettato che era proprio lui, l’abate, ad avere rubato quella deliziosa mela cotta. Quello era uno dei vantaggi di essere abate, era raro che si venisse sospettati di qualcosa… Infatti, (tanto per dimostrare che l’abate è un cretino) anche senza avere fatto nulla di rilevante, ‘Gnazio il mercante ha già scoperto ogni cosa dei piani dell’abate lazzarone, spifferati da un monaco compiacente in cambio di poche erbe per curare il mal di pancia (no, non me lo sono inventato io):

«Eccomi, padre». Il mercante gli mostrò il sacchettino di pelle contenente le radici. «Dite che siano efficaci?», si informò Gualimberto. «Erbe e radici hanno proprietà curative, lo sapete benissimo, immagino».Ignazio inarcò un sopracciglio. «Ma ora ditemi, se non sono indiscreto, per quale motivo non vedete di buon occhio l’abate Rainerio?».

Che un monaco medievale debba farsi spiegare dal mercante ‘Gnazio che le erbe hanno proprietà officinali è cosa ridicola: sarebbe come spiegare ad uno scrittore che i dialoghi debbano avere un senso. Che poi si nasconda l’assurdità del dialogo dietro un espediente del tipo “As you know Bob” è il massimo della tristezza. Il capitolo successivo è ambientato a  Venezia ed è una fetenzia. Tanto per complicare un po’ le cose, ci viene introdotto un nuovo, folle, personaggio. Il Conte Scalò:

“Sopra le spalle portava un mantello di velluto rosso. Era il conte Enrico Scalò, una sua vecchia conoscenza, un ricco patrizio amico del doge e membro del Consiglio dei Quaranta. Ignazio lo salutò con ossequio: «Mio signore, sono lieto di rivedervi». Poi aggiunse, ben consapevole del narcisismo che albergava in quell’uomo: «Radioso come al solito. Un giorno o l’altro mi svelerete come fate a mantenervi tanto in forma». «Mastro Ignazio, il segreto sono il buon cibo e le belle donne», si pavoneggiò il nobile, ma subito si fece serio. «Sono lieto che abbiate risposto alla mia chiamata. Ho una missione importante da affidarvi». «Sono tutt’orecchi. Ah, chiedo venia», il mercante indicò il suo accompagnatore. «Vi presento il mio nuovo assistente. Uberto». A tali parole il ragazzo si piegò in un elaborato inchino, come gli era stato insegnato al monastero di Santa Maria del Mare. Lo Scalò accennò con il capo. «Alzati pure, giovanotto». Uberto obbedì, abbozzando un timido sorriso. Con la sua schiavina di tela grezza, si sentiva ben misera cosa dinanzi a quell’elegante patrizio.”

Il nobile conte Scalò

Ammirate il raffinato vestiario del Conte Scalò

Narcisismo? Sfuggito nulla? Niente paura, c’è il momento Wikipedia che ci viene in aiuto:

Il narcisismo è un disturbo della personalità e, in termini generali, l’amore che una persona prova per la propria immagine e per sé stesso. Havelock Ellis introduce tale termine nel 1892 in un suo studio sull’autoerotismo, per indicare il tipo di perversione sessuale in cui l’individuo preferisce sessualmente il proprio corpo.

La scena della lotta che segue è scritta coi piedi:

“Uno sferragliare inatteso echeggiò fra le volte della cripta. Ignazio interruppe la conversazione. «Cosa succede?» «Qualcuno ci osserva!», esclamò lo Scalò (notare la rima involontaria esclamò/scalò). Guidati dal rumore, corsero verso il braccio orientale. S’imbatterono in Willalme sdraiato a terra, impegnato a respingere l’attacco di un aggressore. L’uomo in nero era riverso su di lui e cercava di affondargli il pugnale nella gola. Ignazio fu sul punto di intervenire, ma il francese riuscì ad allontanare l’avversario con una ginocchiata al fianco destro. L’uomo emise un gemito soffocato e balzò indietro, mantenendo però l’equilibrio. Si rizzò alla svelta, il pugnale teso in avanti, e trapassò i nuovi arrivati con uno sguardo minaccioso. Il mercante avvertì la rabbia di quel figuro, ma anche la sua indecisione. E per quanto non riuscisse a distinguerne i lineamenti, lo studiò con attenzione. Era alto e robusto, sicuramente avvezzo a indossare l’armatura. Il suo portamento non era quello di uno sgherro qualunque, ricordava piuttosto i cavalieri dell’esercito crociato. Quegli armigeri avevano un modo tutto loro di camminare, con le gambe divaricate e il busto proteso in avanti. Inoltre l’uomo in nero doveva essere abituato a maneggiare armi pesanti, spade o mazzapicchi, perché appariva palesemente a disagio con un semplice pugnale. Il tempo si fermò per un istante, poi l’uomo in nero si voltò di scatto e si precipitò di corsa verso l’uscita.

Io, sinceramente, non ho idea di come si possa capire che un uomo con un pugnale è a disagio perché abituato a brandire spade o mazzapicchi. Oh ’Gnazio, c’è un tizio vestito di nero che ti segue ed ora ti punta un pugnale e tu pensi che sia a disagio lui perché abituato a maneggiare spade e mazzapicchi? Darwin dice che il posto giusto per quel pugnale è nel tuo collo…

A ‘sto punto direi che può bastare così. Queste sono solo le prime quaranta pagine. Il resto segue questa falsariga. C’è qualche capitolo scritto in maniera decente ma altri addirittura peggiori. il genere di riferimento è comunque la commedia, tant’è che definirei il mercante di libri maledetti un thriller umoristico. A confronto, per le scene d’azione, l’Eretico di Altieri è un capolavoro senza tempo e il Nome della Rosa si trova in un’altra dimensione per tutto tranne che per la pubblicità che è stata riservata a quest’ abominio. Scoprire che il Simoni definisca “giallo saggistico” il libro di Eco mi fa pensare che non sappia nemmeno di che stia parlando. Crede che documentarsi prima di scrivere un romanzo (i sette anni di studio che Eco ha dedicato al suo romanzo), sia una regola valida solo per i saggi. E poi c’è chi ancora si stupisce che in Italia si legga poco…

Le conseguenze che un libro come Il mercante di libri maledetti può avere sui potenziali lettori.

Mettiamo che un individuo medio compri un romanzo l’anno, magari a Natale, ché c’è la scusa e pure il tempo. Si trova davanti una serie di best-seller di questo tipo, magari porta a casa proprio il Mercante di Libri Maledetti (maledettissimi i libri, proprio). Tornato a casa, si siede davanti al camino. Il gatto fa le fusa e poi gli si acciambella sulle gambe. Dalla cucina, arriva aroma di caffè. Comincia a leggere. Si sforza. Nella prima, terribile mezz’ora, si lascia dietro le prime dieci pagine. Sul tavolino, c’è quella bottiglia di grappa finemente distillata. Allunga la mano e se ne versa un goccio mentre il gatto si rigira miagolando infastidito. Sorseggia il grappino leggendo qualche altra pagina. La lettura è scialba, non gli dice nulla. La storia è costruita male, quasi quasi meglio andare a vedere Natale in Libano o Vacanze di Natale a Peshawar… Suda freddo. Passano altre venti pagine. Quest’uomo si sente un ignorante perché non apprezza il libro, non sa che è giusto sia così. Manda giù un altro sorso di grappino per farsi coraggio. Buono però… Sta per cedere e chiudere il libro. Però quest’uomo è un brav’uomo, si sforza. Suo nonno era un partigiano, nella sua mente si accavallano scene di illustri avi che hanno affrontato il male ed hanno vinto. C’è sangue tignoso e fiero nelle sue vene. Il male non passerà, si dice. Manda giù un altro po’ di grappa per farsi coraggio e va avanti, testa bassa contro il vento di tempesta. E’ un eroe. Arriva a pagina trenta. Parte la colonna sonora di trecento. Straordinario. Nella sua mente le parole s’invischiano con la grappa. Le voci solenni del coro si alzano ogni volta che gira una pagina. Ormai è consapevole che non è possibile tornare indietro, si è spinto troppo oltre nell’orrore. A questo punto è questione di sopravvivenza. Le lettere gli si agganciano agli occhi come uncini infuocati. Gli occhi sanguinano, ma non si arrende. Si scrolla di dosso qualche altra parola, cade e si rialza. Alla fine è  troppo però… Cede portando con sé nell’Ade più pagine che ha potuto in modo che nessun altro debba soffrire come ha fatto lui.

La moglie lo trova riverso con una strisciolina di bava bianca che scende dalla sua bocca contratta nell’ultimo spasmo mortale, ormai freddo. Caccia il gatto dal cadavere del marito. Le donne Italiane sanno come affrontare il dolore, scriverà la nota giornalista e critica letteraria sulle pagine del suo blog. Alla moglie questo però non importa. Asciuga teneramente la saliva dell’amato con il grembiule, le lacrime bagnano le sue guance quando gli posa un ultimo, tenero bacio sulla fronte ancora imperlata di sudore. Strappa il mefitico tomo dalle mani già contratte nel rigor mortis. Poi getta il libro alle fiamme. Lingue di fuoco si levano come spiriti  che bestemmiano in varie lingue (le principali in cui verrà tradotto il romanzo). Infine, chiama i figli  affinché salutino un’ultima volta l’eroico padre.

Conclusioni: i brutti libri sono la causa della scarsità di lettori.

Conclusione: l’Uomo Medio in questione non si avvicinerà alla lettura mai più,  anche perché ora è morto. Anche se dovessero riportarlo in vita con le sfere del drago e anche se dovesse capitargli di comprare l’ennesimo best-seller che non gli dirà proprio nulla, sarà sfiduciato nei confronti della lettura, identificherà i lettori come gente incomprensibile che legge roba incomprensibile. Il mercato avrà venduto un best-seller ma avrà perso un potenziale cliente che, poniamo, avrebbe potuto leggere anche un libro al mese anziché comprarne uno e poi gettarlo nel fuoco. Dunque le case editrici non avranno abbastanza soldi da produrre roba decente. Il tutto perché c’è gente che scrive male ed editori che pubblicano ‘ste robe…


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COMMENTI (1)

Da fafner
Inviato il 09 novembre a 23:19
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Eh, al ragazzo mancano i fondamentali: e lo sa.

L'articolo su Carmilla, per essere scritto «con parole sue», comincia citando Valerio Evangelisti e prosegue con una farragine che neanche i Wu Ming alle prese con l'ennesima recensione di se stessi. Da loro ha preso anche la prosa diseguale, a tratti troppo tecnica e polverosa a tratti troppo corriva, il tono del teorico della letteratura che si mette in pratica, l'insicurezza di chi sente di dover tutto spiegare.

Insomma: il ragazzo vuole farsi accettare dalla famiglia. Se il kollettivo bolognese non lo conterrà nel canone del New Italian Epic, l'autore provvede da sé a nobilitare l'opera: non romanzo un po' storico di evasione, ma Medieval Thriller. In inglese ma in italiano, come il New Italian Epic.