Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 13 ottobre 2012
Oggi si parla spesso, in riferimento allo schieramento politico di sinistra, di indirizzi e di correnti «riformiste». Il recente libro di
Enrico Morando e di Giorgio Tonini, L’Italia dei democratici (ed. Marsilio), porta appunto come sottotitolo «idee per un manifesto riformista». Il riformismo, nella storia della sinistra italiana, non ha mai avuto molta fortuna; esso è stato sempre minoritario, e fatto oggetto degli attacchi più violenti, perché accusato di essere rinunciatario, collaborazionista (con le classi dominanti, con la società borghese) e mirante al solo obiettivo di ottenere qualche concessione. Ma, se si va al di là delle passioni e delle esasperazioni polemiche, e ci si attiene obiettivamente ai dati storici, bisogna dire che il riformismo socialista non ha mai rinnegato l’obiettivo finale della sua lotta: il socialismo. Per i riformisti (si pensi a Turati) si trattava di realizzare gradualmente una serie di riforme che, opportunamente concatenate, avrebbero modificato a poco a poco i rapporti di potere nella società capitalistica, a favore delle classi subalterne, finché si sarebbe giunti a una società di «liberi e di uguali», cioè a una società socialista. Mi sembra però che il nuovo riformismo che si sta delineando oggi nell’ambito della sinistra sia qualitativamente diverso dal vecchio riformismo socialista, e che ciò costituisca una grossa novità.
Esso, infatti, non mette più in discussione la società capitalistica; il superamento di tale società non costituisce più il suo obiettivo finale. E ciò perché la società capitalistica viene considerata dai nuovi riformisti come l’unica in grado di assicurare dinamismo economico e crescita. Certo, tale società produce inevitabilmente disuguaglianze (a causa della sua stratificazione sociale, a causa delle vicende del mercato). E quando queste disuguaglianze diventano eccessive, come in Italia (sostengono Morando e Tonini), esse devono essere ricondotte a dimensioni accettabili, socialmente giustificabili. Anzi, Morando e Tonini ritengono che l’economia italiana possa ritornare ad essere dinamica solo se la disuguaglianza tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala del reddito e della ricchezza venga drasticamente ridotta. Queste affermazioni degli autori meritano qualche commento. Intanto, sarebbe bene porsi una domanda: perché la società capitalistica (quando non è anchilosata da monopoli, che possono essere di varia natura) è l’unica società che assicura dinamismo e crescita? Perché, si può rispondere, in tale società si svolge ogni giorno quel processo creativo alla base del quale ci sono gli sforzi di innumerevoli imprenditori, in concorrenza fra loro, per migliorare la qualità dei loro prodotti, per innovare le tecnologie, per ridurre i costi, al fine di conservare e di ampliare la loro presenza sul mercato. La concorrenza, naturalmente, è lotta. Ma «solo nella lotta - ha scritto Luigi Einaudi - solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso vittorie e insuccessi, una società, una nazione prospera». È questo meccanismo che si è gravemente indebolito e opacizzato negli ultimi lustri nel nostro Paese, sia coi governi di sinistra che coi governi di destra. Le aziende e il lavoro sono stati fiaccati da una tassazione pesantissima. Di qui la debole o inesistente crescita che affligge l’Italia da almeno quindici anni. Morando e Tonini fanno vari riferimenti ad alcune delle ragioni di questa mancata crescita. C’è, in primo luogo, la cattiva performance della produttività del lavoro: il costo del lavoro per unità di prodotto, nell’ultimo decennio, è cresciuto in Italia del 40%, in Francia del 15%, in Germania dell’8%. Tale andamento del costo del lavoro ha tenuto pressoché fermi i salari italiani. Un risultato, questo, anche del fatto che per lunghi anni si è praticata da noi una struttura centralizzata della contrattazione, imperniata sul contratto nazionale di categoria, che ha sostanzialmente impedito ai lavoratori più produttivi delle migliori imprese italiane di portare a casa la loro quota di produttività aziendale. Ma se si esce dalle aziende e si guarda ad altri settori fondamentali della nostra società, le cose non vanno meglio. Infatti nella pubblica amministrazione, nella scuola, nell’Università, nella magistratura, l’anzianità costituisce il requisito essenziale di progressione di carriera, mentre il merito e la produttività sono sostanzialmente ignorati. Ma se le cose stanno cosi, Morando e Tonini vorranno ammettere che il nostro Paese, se indubbiamente soffre di disuguaglianze sociali molto gravi, che devono essere ridotte, soffre anche di un eccesso di egualitarismo che, frenando lo sviluppo economico, ha reso croniche le disuguaglianze, e anzi le ha aggravate. E che quindi la soluzione dei nostri problemi non può essere trovata in un astratto richiamo all’eguaglianza, bensì nella rimozione degli ostacoli che frenano il dinamismo economico, la produttività, il riconoscimento del merito.