In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo,
cioè esistendo praticamente, cioè agendo.
L’intera vita, nel complesso delle sue azioni,
è un cinema naturale e vivente
Pasolini
Il cinema che parla di se stesso, che è specchio di se stesso, in un continuo disvelamento dei propri meccanismi di funzionamento del linguaggio utilizzato. È quel cinema che, consapevole di sé, delle proprie strutture e dei propri stili, dei propri meccanismi produttivi e della propria storia, decide di scoprire l’inganno, di rivelarne il trucco.
È da questa nozione di metacinema che Chiara Nucera ci introduce in un complesso percorso sulle sue potenzialità, i rischi e le insidie in esso connaturati. Ma il testo con cui abbiamo a che fare è soprattutto un’attenta analisi su questa straordinaria macchina ingannatrice e sulla sua naturale inclinazione a (ri)costruire il reale.
Il Cinema è creatore di un “altro” mondo, o meglio di un suo doppio, e nella dimensione intima della sala cinematografica si determina il miracolo della settima arte: la sottile linea che divide corpo dello spettatore ed immagine dello schermo finisce per confonderli, così che l’uno occupi lo spazio dell’altra. Nucera delinea, dunque, un percorso agevole, che parte dall’”inizio” per poi volare alto, tracciando un excursus sulla storia del cinema e procedendo ancora più a ritroso.
Il debito dal punto vista puramente formale che il cinema intrattiene con il teatro greco è assai evidente, per il suo carattere mimetico e catartico. Si rivelano senza misteri il concetto di copia/doppio del mito della caverna di Platone, il perturbante di Freud, e la natura dell’arte come imitazione del possibile tanto cara all’Aristotele de La Poetica. In questo percorso immaginario e ideale, tracciato dall’autrice è come se i registi del titolo si facessero carico di questa pesante eredità traducendola in una chiave post moderna, inclusiva di ogni suggestione, e che si rinnova di volta in volta grazie a tematiche tanto diversificate quanto polisemiche:
la riformulazione del reale attraverso uno spiccato tecnicismo e un’evidente tendenza voyeuristica sono le caratteristiche salienti dell’opera di De Palma a partire dal suo capolavoro Blow Out e nella sua intera filmografia innervata di riverberi hitchcockiani. La critica lynchana alle ipocrisie della borghesia dove si nascondono le più bieche perversioni attraverso un cinema che diviene manifesto dell’inganno, del deformato e che vive di contrasti, ossimori, affreschi quanto mai ambigui, definiti dall’autrice stessa favole dark. Ci viene fornita un’analisi freudiana dei due capolavori lynchani Lost Highway e Mullholand Drive e la particolare accezione di perturbante dello studioso Jentsch viene applicata a quest’ultimo per i suoi particolari effetti di dissonanza cognitiva. Si tinge di caratteri cibernetici il discorso di Cronenberg sulla carne e la mutazione del corpo. Un metacinema inteso in senso profondo come metamorfosi corporea si intreccia con l’altra tematica inerente l’adesione dell’uomo alle tecnologie, che trova il suo apice in Videodrome dove “la televisione è la realtà e la realtà è meno della televisione”. E qui il gioco si fa ancora più complesso, il cinema è negazione di se stesso, critica di se stesso, ma inevitabilmente usa i medesimi mezzi, per creare degli spazi che sono “altro” dal reale.
Ci si concentra quindi sul grande “miracolo” di cui si parlava sopra: tre i modi differenti di strutturare il rapporto schermo-corpo dello spettatore, e altrettanti i modi del percorso reale- trasformazione-nuova messa in collisione con il reale.
Ci viene così presentato un prospetto interessante che induce il lettore a una sua personale ricerca “archeologica” e che coinvolge in un colpo solo, Bazin, Freud, Rank, Menandro, e la cultura pop. Quello di cui si parla è un cinema per nulla rassicurante, che si compiace della sua effimera illusione, in un continuo scambio di piani, un gioco di specchi, e dove il rappresentare la realtà passa attraverso una sua messa in crisi, afferma Nucera.
Ideato così, il cinema vuole dar voce all’inespresso, allo scuro, abbattere ciò che è immediatamente evidente per guardare aldilà.
Giacomo Salis