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Il metodo di Saviano

Creato il 26 aprile 2011 da Sulromanzo

Gomorra

 

Su Roberto Saviano e “Gomorra” sono già stati versati fiumi d’inchiostro.

Quelle che seguono sono alcune molto personali riflessioni su alcuni dei tanti motivi che, secondo me, hanno contribuito al suo grande, immenso successo. In particolare vorrei approfondire quello che io ritengo sia il metodo di Saviano. E vorrei soprattutto mostrare che il suo metodo è importante e fondamentale non solo per la comprensione del fenomeno “camorra”, ma per comprendere tanti altri fenomeni del mondo in cui viviamo. Del nostro presente come del nostro passato.

 

Ho bisogno di alcune premesse. Li chiamerò esempi per semplicità.

 

Primo esempio.

Parto da molto lontano. Dall’anno del Signore 1494. L’anno della discesa in Italia di un re francese. Carlo VIII. È la fine del periodo di relativa pace di cui tutta l’Europa aveva goduto per quasi cinquant’anni. Ritorno subito ai nostri giorni. Ad una interrogazione da me sostenuta a scuola proprio sull’illustre sovrano francese e le sue scorribande nella nostra penisola. Posso assicurare che dissi tutto perfettamente: date, battaglie, sconfitte, ritorno in Francia e morte. L’insegnante, per spiegarmi il senso degli eventi storici che ero stato costretto a imparare su qualche straordinario libro per cui la scuola aveva fatto spendere dei soldi ai miei genitori, mi guardò con la luce negli occhi e con emozione commentò: “Vedi la storia come procede” e sorridendo felice di poter eseguire con efficacia il suo compito educativo concluse “al ritorno da Napoli in Francia, Carlo VIII ebbe uno strano incidente, batté la testa su una trave e morì”. L’insegnante fece una breve pausa e con sfoggio di meningi surriscaldate mi fissò con sguardo illuminato e concluse: “Si è avverato il famoso detto”. Io non capii ed ebbi quasi timore che stesse per arrivare l’ultima domanda capace di rovinarmi l’otto all’interrogazione. Per fortuna l’insegnante terminò da solo e sorridente mi fece donò del commento finale: “Carlo VIII è la prova della verità del famoso detto vedi Napoli e poi muori”.

Nel corso degli anni quell’interrogazione è diventata per me l’esempio dell’educazione non solo paternalistica e arrogante della scuola italiana ma soprattutto di una cultura basata sulla disinformazione.

 

Secondo esempio.

Ricordo una lezione di scienze naturali durante la quale un compagno fece una domanda sull’Aids. Erano già passati degli anni dai primi casi. Tra noi ragazzi c’era paura, curiosità, voglia di sapere.

Ora, per un certo periodo di tempo, all’inizio soprattutto, l’Aids nell’immaginario collettivo è stata associata alla figura dell’omosessuale, ma era sufficiente approfondire con poche letture appena più serie di una rivista da barbiere per comprendere già da allora che si trattava di un virus in grado di colpire tutti: eterosessuali e omosessuali.

Non ricordo esattamente la domanda. È più che sufficiente ricordare la risposta dell’insegnante.

Storse la bocca, sorrise leggermente e prese lo stipendio alla fine del mese: “Vedete ragazzi. La natura ha delle regole. E quando si va contro natura…”. Sospese le ultime parole lasciando che nella mente dei poveri alunni qualche notizia arrivata loro da radio e televisione chiudesse perfettamente il cerchio in una spiegazione perfetta sui motivi di una punizione superiore contro i gay.

 

Terzo esempio.

È noto a tutti come viene spiegato a scuola lo scoppio della prima guerra mondiale. Il 28 giugno 1914 l’arciduca Ferdinando viene assassinato a Sarajevo. Secondo tanti insegnanti pare proprio che subito dopo, il mondo si scatenò in un rapporto diretto, univoco, definitivo di causa ed effetto in azioni belliche che portarono a milioni e milioni di morti.

Detto così un evento tragico e complesso viene ridotto a barzelletta. Si prende la circostanza iniziale, probabilmente solo un pretesto per il conflitto e la si estende a determinante fondamentale. Una informazione corretta dovrebbe quanto meno soffermarsi sui fermenti sociali, culturali ed economici di inizio Novecento e sulle mire espansionistiche dell’Austria-Ungheria.

Ascoltare gli insegnanti spiegare lo scoppio della prima guerra mondiale è come andare da un macellaio che vuol convincerci che la bistecca che stiamo per comprare è l’intero vitello o che l’arista coincide con il suino.

 

Quarto esempio.

L’avvento del nazionalsocialismo in Germania. A me a scuola l’hanno raccontato così: all’inizio degli anni trenta un pazzoide esaltato che odiava gli ebrei si mise in testa di sterminarli tutti. Così andò al potere e instaurò un totalitarismo basato sull’odio razziale.

Ora, la frase in sé è vera. Ma non è in grado di spiegare o almeno di dare un’idea dei motivi che hanno portato all’affermazione di quel regime. Non sarebbe il caso di partire dalle conseguenze del Trattato di Versailles, i debiti di guerra e proseguire con la crisi economica mondiale, l’iperinflazione, la miopia degli industriali tedeschi che appoggiarono il partito nazionalsocialista?

Gli insegnanti rispondono che non hanno tempo di approfondire, che devono semplificare e che devono seguire un certo metodo didattico. A me, il loro, appare solo un paternalismo da condannare come arroganza culturale. Se poi al concetto astratto e arbitrario di metodo didattico venisse sostituito il criterio ben più concreto e rispettoso di informazione corretta o scorretta la scuola italiana, ne sono convinto, migliorerebbe moltissimo.

 

Pensando all’informazione, ricordo di un esperimento fatto poco tempo fa. In una puntata del TG5, orologio alla mano, gli ultimi tredici minuti erano dedicati a un autista dell’Atac che cambiava tragitto per correre dalla fidanzata, all’ultimo ritrovato di un’attrice in menopausa per mantenere bella la pelle, all’aggiornamento sui legami sentimentali dei partecipanti a un reality.

 

Gli esempi di questo tipo potrebbero continuare. A proposito, è di questi giorni l’intervento del professor De Mattei che ci spiega che l’impero romano sarebbe finito perché c’erano troppi gay.

 

Emanuele Severino ne “Il destino della tecnica” si chiede che cosa devono sapere i giovani che escono dalle nostre scuole, che cosa deve sapere il nostro popolo.

Ecco la sua risposta:

 

Deve soprattutto conoscere il significato fondamentale della situazione storica in cui si trova, qualcosa cioè che non riguarda soltanto l’Italia ma l’intero pianeta e che non è un pulviscolo inafferrabile e impercorribile di cognizioni, ma ha una forma, una configurazione determinata. Deve conoscere i tratti essenziali del mondo in cui vive. Altrimenti è un popolo che vive sognando. Ogni altro modo di rispondere a quella domanda è subordinato, è una conseguenza, un corollario, uno strumento per realizzare questo, che è lo scopo primario”.

 

La distanza tra gli esempi di cui sopra e le nobili parole di Severino è disarmante, spaventosa.

 

Come cercare di colmare questa distanza? Esiste un modo, una ricetta importante. Lo studio, le buone letture. Faccio qualche esempio. Per approfondire gli eventi del novecento leggiamo Hobsbawm, Il secolo breve. Leggiamo Keynes, Le conseguenze economiche della pace, e capiremo meglio gli errori del trattato di Versailles, leggiamo John Kenneth Galbraith, Il grande crollo, e potremo farci un’idea della crisi del ‘29. Leggiamo Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, Storia di Machiavelli, ed entreremo nelle trame diplomatiche, nei rapporti di forza militari e politici in Italia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Anche la discesa in Italia di Carlo VIII sarà più facile da capire.

C’è uno straordinario libro di Erich Fromm, Lavoro e società agli albori del terzo Reich, ricco di indagini, statistiche, ricerche. L’autore ci porta a respirare la cultura di quel tempo. Ci fa conoscere le abitudini, le letture, le idee, persino i passatempi dei tedeschi di quegli anni. È un meraviglioso affresco di storia vissuta. Per un quadro sociale dei nostri tempi un grande libro è quello di Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali.

Con tutto il rispetto per il Professor De Mattei, mi permetto di suggerire un classico di Montesquieu sull’Impero Romano, Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence.

 

Ma queste letture non sempre attraggono. Possono risultare complesse, forse difficili ed è anche comprensibile che non giungano al grande, grandissimo pubblico. La sociologia della letteratura ce lo spiega bene. Specialmente in Itali,a dove si legge poco.

 

Ecco allora il metodo di Roberto Saviano. Diciamo subito che non è affatto un metodo alternativo a quello basato sullo studio dei libri o sulla lettura dei saggi di storia o sociologia. È semmai un metodo di scrittura che integra e va oltre quello che caratterizza i grandi saggi specialistici.

Come gli storici, gli economisti, i sociologi citati sopra hanno analizzato un periodo storico, una guerra, un regime, anche Saviano si è concentrato su un fenomeno complesso che riguarda l’economia, i valori, le idee, la ricchezza e la povertà di un certo territorio: la camorra. Come i grandi studiosi e ricercatori Roberto Saviano è partito da uno strumento fondamentale: la documentazione.

Come faccio a sapere cosa è successo in quella città durante quell’assedio? Come faccio a conoscere il Risorgimento? Ma anche, più banalmente: come faccio a sapere come funziona il motore a scoppio. La risposta è semplice: mi documento, leggo, studio. Il problema è che oggi, fuori dagli ambienti specialistici e accademici, non lo fa più nessuno! Le giornate del medio cittadino sono piene di dialoghi costituiti di frasi fatte. Non esiste la benché minima sensibilità all’approfondimento. Gli scambi di opinione si basano sul sentito dire, su voci riferite dai programmi di gossip. La televisione è citata come oracolo della verità e la coscienza critica appare morta. La verità raccontata in un programma di intrattenimento pomeridiano è oro colato. La voce di popolo è voce di Dio.

Ebbene Saviano è tornato alla documentazione. La sua è una specie di filologia del sociale. Leggendo Gomorra non troviamo sillogismi ricavati da ipotesi o giudizi di valore, non ci sono arbitrari punti di vista dell’autore. Saviano racconta eventi da lui conosciuti studiando, ricercando sul posto, indagando di persona. Ci narra la sua inchiesta. Ma non ce la presenta come il risultato raffinato di elaborazioni sociologiche o di mercato. La sua narrazione coincide con il divenire vissuto della sua stessa attività di documentazione.

Non molto tempo fa l’autore di Gomorra ha suscitato forti reazioni per un’affermazione fatta in televisione sulla ricerca di legami al Nord della camorra con un ben preciso partito politico. Lui stesso si è meravigliato per tante reazioni. Ha risposto semplicemente che quell’affermazione deriva dalla lettura delle carte processuali, dalle testimonianze, dalle intercettazioni. Cosa aveva fatto? Si era documentato.

Così in Gomorra troviamo riferimenti a letture di migliaia e migliaia di carte processuali.

Saviano ci ha raccontato avvenimenti che erano già patrimonio di conoscenza delle istituzioni. Non ha svolto un lavoro da agente segreto, non ha scoperto in realtà un fenomeno nuovo. L’ha saputo raccontare. Con onestà, con amore per l’inchiesta. Per la documentazione, appunto.

Ma allora chiediamoci perché questo fenomeno, nella sua reale complessità, non era giunto alla coscienza del grande pubblico. Se una lacuna enorme è stata colmata grazie a Gomorra nella consapevolezza sociale sul livello di potere della camorra, ciò significa che i giornali, la scuola, le istituzioni non riescono a creare coscienza critica, ad educare alla riflessione, a infondere la volontà di non accontentarsi del dato banale e superficiale. Ecco che la “barzelletta” iniziale dell’insegnante su Carlo VIII assume adesso un significato sinistro.

Aggiungo anche che ci sono vari politici in Italia che non rispettano la documentazione, insomma i fatti.

Sarebbero capaci di ripetere miliardi di volte che due più due fa tre. E alla fine crederci loro stessi e farlo credere a tanti, troppi (fosse anche uno soltanto) elettori.

 

Roberto Saviano
Il secondo importantissimo elemento che emerge dalle pagine di Gomorra è la passione dello scrittore.

Nelle sue pagine si avverte un forte amore per la sua terra. E questo fa emergere un sentimento di dolorosa partecipazione per gli eventi che racconta. Il raccontare diviene esso stesso strumento di conoscenza, cosicché il lettore non si sente come lo studente che deve studiare, l’allievo che deve faticare per capire. Al contrario il lettore è invitato ad accompagnare lo scrittore. Chi scrive e chi legge sono messi sullo stesso piano morale. Non c’è chi insegna e chi impara. Entrambi sono chiamati alla responsabilità di capire. Se uno dei due si tira indietro deve accettare la propria colpa, la colpa di non voler andare fino in fondo nella conoscenza di un fenomeno! Sono uniti, legati fino in fondo nella chiamata ad aprire la coscienza verso ciò che accade realmente. Nel momento stesso in cui qualcuno, lettore o scrittore, dovesse decidere di non aprirsi ad una coscienza critica, ecco che quella stessa decisione diventerebbe prova di aver intuito come vanno le cose e di aver scelto la strategia dello struzzo.

Saviano stesso lo dice: “Avevo deciso di seguire quello che stava per accadere a Secondigliano. Più Pasquale segnalava la pericolosità della situazione, più mi convincevo che non era possibile non tentare di comprendere gli elementi del disastro. E comprendere significava almeno farne parte. Non c’è scelta, e non credo vi fosse altro modo per capire le cose. La neutralità e la distanza oggettiva sono luoghi che non sono mai riuscito a trovare”.

Confrontiamo questo atteggiamento dello scrittore Saviano con quello richiamato sopra degli insegnanti che parlano di Aids o degli studiosi che ci raccontano come è finito l’impero romano.

 

Collegata alla passione è il terzo, secondo me fondamentale, elemento per capire il successo di Gomorra.

Il rispetto per il lettore. Di fronte ai concetti più difficili, ai meccanismi più complessi, come quelli su cui la camorra basa il suo potere, Saviano non rinuncia a cercare una semplificazione. Vuol presentare le cose in modo comprensibile ed accessibile a tutti. Ma la sua semplificazione non è affatto il risultato di un atteggiamento paternalistico, come lo specialista che si sforza di ridurre una difficoltà concettuale dall’alto della sua intelligenza e del suo sapere. Perché il lettore percepisce questo? Perché è l’autore stesso che per primo dichiara, e senza indizi di falsa modestia, la sua difficoltà a rappresentarsi con il pensiero la vastità di un’organizzazione o la complessità del sistema camorra.

Consideriamo l’economia. In televisione ce la raccontano con tassi d’interesse, tassi di sconto, diminuzioni o aumenti della liquidità, tassi d’inflazione vari. All’università si parla di equazioni differenziali, di modelli stocastici, di una matematica completamente slegata dalla realtà.

Lasciamo parlare Saviano adesso: ”Immaginare non è complicato. Formarsi nella mente una persona, un gesto, o qualcosa che non esiste, non è difficile. Non è complesso immaginare persino la propria morte. Ma la cosa più complicata è immaginare l’economia in tutte le sue parti. I flussi finanziari, le percentuali di profitto, le contrattazioni, i debiti, gli investimenti. Non ci sono fisionomie da visualizzare, cose precise da ficcarsi in mente. Si possono immaginare le diverse determinazioni dell’economia, ma non i flussi, i conti bancari, le operazioni singole. Se si prova a immaginare l’economia, si rischia di tenere gli occhi chiusi per concentrarsi e spremersi sino a vedere quelle psichedeliche deformazioni colorate sullo schermo della palpebra”. Poco dopo parla delle discariche come l’emblema di ogni ciclo economico, come fosse la testimonianza occultabile, ma non cancellabile, di un certo sistema produttivo e con una immagine molto potente afferma che se tutti i rifiuti sfuggiti ai controlli fossero riuniti formerebbero una montagna di quattordici chilometri e mezzo di altezza con una base di tre ettari.

Tutto il libro è ricco di riferimenti ad una immediata concretezza non tanto e non solo di un certo delitto o di un agguato. Sarebbe troppo facile. Possiamo notare che le situazioni più sconvolgenti, come gli assassinii più crudeli, sono sempre raccontati con un diretto riferimento alle conseguenze che quel delitto, quella strage ha sull’ambiente sociale, sulle persone che vivono nella zona circostante: pensiamo al soccorso prestato dal padre dello scrittore ad un uomo ferito da un killer. Secondo gli ordini della camorra doveva attendere che passassero a finirlo. Fu picchiato a sangue.

E poi ancora le immagini dei carabinieri che vomitano tirando fuori un cadavere da un'auto crivellata di colpi. È la sofferenza dell’uomo delle forze dell’ordine. Uomo, appunto, prima di tutto.

Pensiamo ancora al funerale di un ragazzo ucciso. Un poliziotto in borghese fa notare all’autore che la maggior parte dei presenti sono ragazzi della camorra, destinati al carcere o a una morte in una guerra tra clan. Ci fa vedere sempre qualcosa di più della cronaca.

Pochi esempi per sottolineare come la violenza e la tragedia sono raccontate senza mai fermarsi a ciò che esse sono in quanto tali, ma sempre nelle loro metastasi negli interstizi sociali ed umani delle vite di ognuno: il medico, il carabiniere, l’amico della vittima. Io vedo in questo un grande rispetto per il lettore.

 

Un altro elemento che mi ha colpito leggendo Gomorra è l’assoluta messa al bando dei pregiudizi.

Parlo di pregiudizio nel senso etimologico del termine, cioè pre-giudizio. Giudizio, dunque, espresso a priori. Attenzione: intendo per pregiudizio non solo un giudizio dato prima di aver conosciuto un fatto, poiché un pregiudizio può essere espresso anche dopo la conoscenza di qualcuno o qualcosa. Il pregiudizio più insidioso è quello formato in base a predefinite categorie culturali, morali, sociali, economiche.

Può essere anche inconsapevole ed in questo caso è davvero pericoloso. Il “conoscere per deliberare” non è sufficiente per essere esenti dal pregiudizio; è necessario liberarsi di quelle categorie. Ecco, l’assoluta mancanza di pregiudizio è stata, secondo me, un importante motivo del successo di Gomorra.

Faccio alcuni esempi. Torniamo al racconto del padre dell’autore, colpevole, per la camorra, di aver prestato soccorso al ferito prima del ritorno e perciò pestato a sangue. Sarebbe facile lasciarsi andare a considerazioni morali o a valutazioni su crudeltà, coraggio, giustizia, ingiustizia. Ascoltiamo Saviano: “Scegliere di salvare chi deve morire significa voler condividerne la sorte, perché qui con la volontà non si muta nulla. Non è una decisione che riesce a portarti via da un problema, non è una presa di coscienza, un pensiero, una scelta, che davvero riescono a darti la sensazione di star agendo nel migliore dei modi. Qualunque sia la cosa da fare, sarà quella sbagliata per qualche motivo. Questa è la vera solitudine”.

Con queste parole viene mostrata la situazione per quello che è. Un’aderenza ai fatti che non è solo realismo asciutto e cronaca fedele. È soprattutto un legame così diretto con la verità interiore dell’uomo da “sbattere” il lettore davanti all’esperienza di quell’essere umano. Le cateratte morali, anche quelle innalzate sulla base delle più immediate e condivise reazioni, sono abbassate. Il risultato è che il lettore “vede” la solitudine di quel medico. Confrontiamo questa definizione di “solitudine” con la definizione che passa spesso nel gergo comune: essere soli significa non uscire la sera. Punto e basta.

Un altro esempio in cui il pre-giudizio è messo al bando. Consideriamo la scena in cui centinaia di donne scendono per strada, bruciano cassonetti, lanciano oggetti contro le volanti che stanno arrestando i loro figli, nipoti, vicini di casa. Sarebbe facile una condanna morale immediata per quelle donne, un disprezzo infinito per chi si oppone alle forze dell’ordine.

Intendiamoci: in quel comportamento di madri, sorelle, mogli, amiche, l’autore vede una solidarietà criminale. Ma non solo quello.

“Eppure non riuscivo a vedere su quei visi, in quelle parole di rabbia, in quelle cosce fasciate da tute così attillate che sembrano sul punto di esplodere, non riuscivo a vedere solo una solidarietà criminale. Il mercato della droga è fonte di sostentamento, un sostentamento minimo che per la maggior parte della gente di Secondigliano non ha alcun valore di arricchimento.”

Ancora il lettore è distolto da una possibile, istantanea reazione morale e messo davanti alla realtà. Poi dovrà decidere, giudicare se vuole. Ma il suo giudizio sarà certo più complesso di quello confezionato con gli specchi morali del sentire comune.

 

Infine l’economia. Gomorra è un libro in cui i facili pre-giudizi della scienza economica che rappresenta un mondo tutto formule, modelli e schemi, sono abbattuti come muri di sabbia. Il lettore è chiamato a riflettere sulle regioni del nord Italia che godono probabilmente di immensi vantaggi in termini di costi, usando i metodi illegali ma efficienti delle ecomafie, sull’espansione delle aziende dei camorristi che riescono a imporsi su fornitori e clienti, non solo con la forza, ma anche grazie alla convenienza delle loro offerte.

“Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose ferro, tempo e contratti”.

 

Dunque: documentazione, passione dello scrittore, rispetto per il lettore, messa al bando dei pre-giudizi.

Questi sono secondo me i pilastri della scrittura di Roberto Saviano. Pilastri da usare a scuola, in famiglia, all’università. In ogni luogo dove si vuole che un essere cresca davvero.

Questo è cibo salutare, forse scomodo, ma salutare per la coscienza.

Gli esempi iniziali dell’articolo sono solo veleno.


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