Per le carceri italiane è stato luglio il più crudele dei mesi. A pochi giorni dall’allarme lanciato dall’associazione “Antigone” sul sovraffollamento intollerabile, è la Onlus “Ristretti orizzonti” a segnalare l’agghiacciante escalation di suicidi e aggressioni avvenuti nei penitenziari italiani solo negli ultimi trenta giorni: tredici detenuti e tre agenti di polizia penitenziaria, in una Spoon River che è la celebrazione della morte per esasperazione in una stagione più feroce delle altre.
Abbiamo un internato trafitto dalla malinconia di un raggio di sole nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, un agente di polizia penitenziaria ad Augusta, raggiunto dai suoi demoni in servizio permanente effettivo. E poi sei detenuti impiccati (l’ultimo a Lecce proprio ieri), altri due agenti di custodia suicidi con la pistola d’ordinanza, un internato dell’Opg di Aversa trasformato in una torcia umana dal compagno di cella, un detenuto morto nel carcere di Siracusa dopo venticinque giorni di digiuno e altri carcerati deceduti per non meglio precisate cause naturali. Non c’è chiaramente nulla di naturale in morti del genere, ed è strano che pochi lo notino in un paese in cui si tende troppo spesso a interpretare la morte, trasformandola in atto d’accusa strumentale e non dimostrabile. Queste morti, però, parlano nel loro assordante silenzio.
Il 17 luglio scorso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso la quarta condanna contro l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti cui sono sottoposti i detenuti. Non si tratta di casi isolati o eccezionali: pendono a Strasburgo oltre 1200 ricorsi analoghi, che non lasciano prevedere plausi europei per la gestione delle nostre strutture carcerarie. Stavolta è proprio il caso di dire che ce lo chiede l’Europa, ma l’emergenza detentiva non pare avere la stessa priorità politica della destrutturazione della concussione.
Giusto un anno fa il Presidente della Repubblica parlò di una «questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile». A distanza di un anno, e nonostante il decreto svuota-carceri, la situazione è sempre più drammatica. Qualche settimana fa un gruppo composito di 120 professori universitari, di diversa estrazione culturale e politica, ha scritto una lettera aperta a Giorgio Napolitano sui problemi della giustizia e dell’emergenza carceraria. La lettera ha acquisito una singolare notorietà per la sua replica, istruita e materialmente redatta dal consigliere Loris D’Ambrosio poche ore prima della sua morte (naturale). Meno noti sono i contenuti di questa replica, che contiene passaggi sconfortanti. Il Capo dello Stato, pur richiamando l’insostenibilità del sovraffollamento degli istituti penitenziari e la necessità di una riforma legislativa della “decarcerizzazione”, afferma che oggi non esistono le condizioni per “un ampio accordo politico” finalizzato alla concessione dell’amnistia e o dell’indulto.
Ci chiediamo, allora, che senso abbiano gli appelli all’unità del Paese e l’invito a riforme “condivise”, se non si è in grado di condividere la responsabilità di una situazione che, a detta dello stesso Napolitano, è “pesante e penosa” e “fonte di discredito”. Eppure l’ampio accordo politico è stato trovato per l’assassinio dell’articolo 18, per lo smantellamento dello stato sociale, per la silente revisione costituzionale dell’articolo 81 della nostra Carta fondamentale. Si continua a tollerare che le Camere giochino al semipresidenzialismo, inaspriscano la responsabilità civile dei giudici, maneggino la corruzione, discettino sulle intercettazioni possibili e su quelle impossibili: su tutto ciò forse non esistono ampi accordi politici ma indulgenze plenarie in un clima in cui nessuno, nel parlamento del porcellum, è più innocente.
Attendiamo, probabilmente invano, una riforma urgentissima del sistema penitenziario, che dica tra le altre cose quale sarà il destino degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari, prossimi alla chiusura come al nulla legislativo. Attendiamo impazienti sulla sponda del fiume la fine di questa imbarazzante legislatura. Per morte naturale, s’intende.
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