Poletti non ha studiato e ci tiene a
farlo sapere. Sembra persino vantarsene, anche se è una vanità spuntata, quella
dettata dal risentimento vendicativo di un uomo che, con tutta probabilità, continua
da una vita a subire torti da individui più scolarizzati, tali da
traumatizzarne la sensibilità. Il perito agrario, meglio agrimensore, Poletti,
durante un incontro cogli studenti della Luiss, ha suggerito di fare in fretta
a laurearsi: “per non dover competere con studenti che hanno sei anni in meno”.
Studiare, infatti, almeno agli occhi del mercato del lavoro, non premia.
Insomma, non importa se studi o meno, l’importante è che tu ti muova ad
ottenere il pezzo di carta che ti titola, perché le Università sono considerate
da costoro alla stregua di inutili diplomificie non invece, con buona pace di qualche secolo di paideia, luoghi in cui formarsi per diventare uomini e cittadini
migliori. Poletti, evidentemente folgorato sulla via della Luiss, incalza
borioso e con l’autoreferenzialità tipica di chi ce l’ha fatta nonostante le
proprie competenze e abilità: “prendere 110 e lode a 28
anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.
Si, perché l’antico
principio secondo cui l’acquisizione del sapere era inscindibile dalla
formazione personale dello spirito (Bildung), è oggi più desueto che mai. Oggi
infatti, i bravi formatori di prof(l)essione ci tengono ad informare le
matricole, che il sapere, al pari di qualsiasi merce, per dirla con Lyotard: “viene prodotto per essere venduto, e viene
consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i
casi per essere scambiato”. Tuttavia, il Ministro
del lavoro non ha, oggettivamente, tutti i torti. Tenta goffamente di dare
buoni consigli, testimoniando per giunta col proprio esempio la bontà di quei
suggerimenti. Stando alle dichiarazioni
di Poletti, il sapere, infatti, deve possedere primariamente un “valore d’uso”,
altrimenti non è un “buon sapere”. Deve essere spendibile, utile ad ingrassare
il funzionamento del sistema di produzione globale che valorizza ogni cosa in
proporzione al proprio stesso meccanismo. E’, in fondo, lo stesso principio
caro al positivismo utilitarista di stampo anglosassone, secondo cui è buono,
giusto e morale, tutto ciò che possiede un’utilità, non importa se societaria
prima e industriale poi. Eppure i valori, nel corso dell’ondivaga esistenza
umana, non si sono sempre piegati ai precetti utilitaristici che hanno vinto
oggi la partita morale.
Non c’è nemmeno bisogno di tornare alla società
premoderna e preindustriale per trovare significativi esempi di quando il
sapere, o la cultura più in generale se si preferisce, erano considerati una
cosa “seria”, degna a prescindere dal valore d’uso mercantile. Marc Bloch e
Lucien Febvre fondarono a Strasburgo nel 1929 la Rivista Annales d'histoire
économique et sociale, introducendo nuove metodologie nello studio della
storia e soprattutto una nova filosofia nella storiografia. In realtà non sarebbe
stata solo la rivista in sé, ma il mondo accademico francese in generale, che
si sarebbe sollevato ascoltando l’invito a non innamorarsi dello studio,
pronunciato da Poletti. Perché sino a qualche anno fa la cultura era una cosa
seria e non semplicemente uno strumento per ottenere un posto di lavoro.
Gli studenti
francesi dell’epoca non erano invitati a “sbrigarsi per il loro bene”, bensì ad
imparare: il percorso di tirocinio, di studio negli archivi di mezzo mondo, per
gli storici, durava una vita intera. Essi infatti “sapevano” che per imparare
serve anzitutto tempo, passione verso ciò che si fa, senza considerare il tempo
di studio come uno sgradevole passaggio verso la via della beatificazione
lavorativa a fine di lucro, bensì un momento privilegiato, indispensabile per
la propria formazione umana, da assaporare lentamente ed intensamente, non come
una gara podistica o un coitus
interruptus strumentale al piacere sterilizzato dell’uomo a una dimensione marcusiano.
Un Ministro che
sembra promuovere l’ignoranza attiva, le cose fatte male e sbrigativamente, “tanto per fare”, e la morale del risultato, dovrebbe essere rimosso
immediatamente dalla sua carica… se solo il sapere e la cultura fossero davvero
cose “serie”, riconosciuta e stimate dalla collettività per la loro utilità
“umana”, eudemonica, e incommensurabile.