Non parlo delle torri abbattute dagli aerei, di quella tragedia che ha cercato di rinnovare artificiosamente un’innocenza perduta e del cuore di tenebra che invece ancora vi si cela come una muta bestia in agguato. No, parlo dell’ 11 settembre 1973, giorno del golpe di Pinochet in Cile e del suicidio o più probabilmente omicidio di Salvador Allende, del primo tentativo in Sudamerica di liberarsi dalla colonizzazione statunitense, del primo governo di vera sinistra nel continente e in generale nell’Occidente del dopoguerra. Ne parlo per molte ragioni: perché fu uno choc meno spettacolare, ma molto più profondo di quello delle torri, perché fu quella la prova generale della lotta di classe al contrario in cui le corporation si esercitarono a prendere il sopravvento sulla politica, perché ha avuto sull’Italia conseguenze enormi che ancora oggi agiscono sia pure in un contesto diverso e last but not least perché si lega a ricordi personali.
Comincio da questi ultimi perché nei primi anni di lavoro ebbi a che fare con la “tutela” professionale di Giancarlo Zanfrognini, l’unico giornalista italiano presente in Cile al momento del golpe. Al Resto del Carlino circolava una voce maligna secondo la quale il pezzo sulla vittoria dei golpisti era stato dettato due ore prima dell’assalto dei militari alla Moneda, cosa che in un primo momento era sfuggita a causa del fuso orario. Ma in ogni caso di certo Zanfrognini si poteva considerare persona informata dei fatti. Così lo sfruculiavo continuamente su quei giorni dei quali del resto aveva parlato in due libri. E da quello che diceva era più che evidente il ruolo dei servizi segreti americani e non solo, nel tragico epilogo dell’esperienza di sinistra in Cile. Una cosa che adesso è ovvia e provata, ma che allora veniva negata con sdegno dalla moderazione democristiana.
Però per capirci qualcosa bisogna fare un passo indietro e al 4 settembre1970, inizio della primavera in Cile, alle elezioni di Viña del Mar. Le sinistre unite nel cartello di Unidad popular erano in relativa minoranza, sfiorando al massino il 40% dell’elettorato, ma erano più attive, più consapevoli rispetto all’area moderata e di destra, tenevano la piazza per così dire. Il vecchio democristiano Frey non poteva più ripresentarsi alle elezioni presidenziali perché aveva già fatto due mandati consecutivi e questo costituì un primo problema. Il secondo fu dovuto al clima particolarmente tiepido in quell’anno che spinse la borghesia di Santiago ad andare in massa nella Rimini cilena, Viña del Mar appunto. Quando i più giovani sentono gli inviti ad andare al mare è proprio da questo che deriva e Craxi che fu il primo fautore dei disimpegni balneari lo sapeva benissimo.
Così Allende vinse per 40 mila voti, senza superare però il 51%, anzi prendendo il 36 e passa per cento contro il 34 del candidato conservatore e il 27 di quello democristiano. Nixon tentò disperatamente, con la complicità delle destre cilene di fare una sorta di golpe costituzionale tentando di far eleggere il candidato arrivato secondo il quale poi si sarebbe dovuto dimettere per dare di nuovo la parola alle urne. Si poteva fare perché l’elezione popolare doveva essere confermata da quella parlamentare. Ciò avrebbe permesso formalmente al vecchio Frey di ripresentarsi e probabilmente di vincere. Il piano non riuscì perché la Dc del sud del mondo, dopo aspre discussioni scelse di votare Allende. Tuttavia questa ebbe un prezzo, anche dovuto alle enormi pressioni Usa e costrinse fin da subito il nuovo presidente a dover scendere a patti con i centristi. I successivi tre anni si consumarono al’insegna di questa di questo primo choc: Allende dovette moderare di molto il suo programma, andare con i piedi di piombo, scontentando così la parte più a sinistra di Unidad popular spinta sempre di più verso posizioni rivoluzionarie, senza però accontentare i moderati, anzi spaventandoli ancora di più. Tra le concessioni di Allende ci fu anche la nomina di Pinochet, noto uomo di destra, se non di aperte simpatie naziste, al comando dell’esercito, sperando di dare garanzie al centro. Invece il generale già covava il golpe in accordo con i molti amici di Washington.
Tutto questo in Italia ebbe un impatto enorme: da una parte alcuni settori dell’estrema sinistra ne dedussero che non era possibile collaborare con la borghesia e che dunque la violenza era necessaria, rinsaldando e confermando una via alla soluzione armata. Dall’altra convinse il Pci che non si governa col 51% e ciò indusse Berlinguer ad abbozzare la strategia del compromesso storico, ipotizzata in tre articoli su Rinascita di cui il più rilevante è ” Dopo il golpe in Cile”.
Oggi le cose sono molto cambiate: il liberismo ha sommerso e sconfitto sia la classe operaia, sia la borghesia intesa come ceto, sgominandola con la forza di promesse e illusioni individuali che solo adesso cominciano a mostrare la corda. Ma rimane in sottofondo l’idea che si possa governare solo con un compromesso globale e questo nonostante non esista più una sinistra rivoluzionaria insurrezionale e nemmeno una socialdemocrazia. La sensibilità del milieu economico finanziario versi i temi della cittadinanza, dello stato, del welfare, dei diritti del lavoro è diventata più acuta man mano che riusciva a far introiettare le sue tesi, rendendole l’unica realtà possibile e oggi è spaventata persino dall’ ubbidienza “più qualcosa” che viene proposto in alternativa. Dal canto loro i partiti, costretti dentro la camicia di forza del compromesso necessario, ipnotizzati da una mitica centralità centro, si sono adeguati, sono diventati comitati di potere e affari, hanno perso qualsiasi tensione ideologica nel tentativo di diventare contenitori universali ed avere perciò la “patente per governare”.Gli echi di quell’11 settembre del 1973 si fanno ancora sentire, risuonano ancora in questi giorni.
E riaprono le ferite, rilanciano e le angosce sempre più acute per le sorti della democrazia. Ma forse danno anche la vertiginosa emozione che il futuro, il nostro futuro va tutto di nuovo inventato e conquistato.