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“Il mio Afghanistan” di Federica Iezzi

Creato il 20 gennaio 2012 da Viadellebelledonne

 “Il mio Afghanistan” di Federica Iezzi

Ciao amica mia, come stai? E’ un po’ di tempo che non ti scrivo!!

Spero tutto vada bene. Come va a scuola? E i tuoi figli? E tu?
Io sono a dirigere la cardiochirurgia pediatrica-congenita a Kabul, in Afghanistan. In Africa sono stata bene, a parte qualche divergenza di pensiero sul management dell’ospedale, ma in ogni caso ho pensato ad operare il più possibile e alla perfezione. Adesso mi sto abituando all’Afghanistan, che è totalmente diverso sia politicamente che praticamente ad ogni altro posto. E’ un paese che soffre ancora parecchio per la guerra, ci sono edifici pieni di buchi di kalashnikov o crollati, polvere dappertutto. L’ospedale dove sono è un edificio degli anni ’70, ristrutturato e con tutto il necessario per far funzionare una cardiochirurgia, ma si sente che è un edificio che ha passato la guerra. Devi stare attento a parecchie cose, compresi gli accordi vari tra le fazioni (governo, talebani, mujaheddin, per non parlare delle “spinte” degli stati limitrofi Pakistan, India, Emirati Arabi). Non è proprio facile dirigere qualcosa qui, perchè devi avere contatti con tutte queste figure e devi cercare di incastrare tutto alla perfezione senza creare malcontenti. Un errore qua ti può anche far saltare in aria, da quello che ho capito. Ma per ora va bene, faccio il mio lavoro bene, opero praticamente solo bimbi, anche se mi è capitato qualche adulto e per ora ho risolto tanti problemi chirurgici che in questo posto non si sarebbero mai risolti. Conta che la “mia” cardiochirurgia è l’unica in tutto l’Afghanistan, per cui le persone arrivano da ogni angolo. Sto bene, le persone sono fantastiche, i pazienti sono bellissimi. In tutto l’Afghanistan l’ospedale dove lavoro è quello di riferimento principalmente per i cardiopatici congeniti ma a dire la verità vedo e faccio di tutto, dalla chirurgia toracica alla vascolare, alla cardiochirurgia acquisita e congenita adulti e bimbi piccoli piccoli. Ho iniziato programmi di training per il personale ospedaliero locale. Ho aiutato alcuni studenti afgani ad avere finanziamenti per frequentare le scuole di specializzazione in cardiochirurgia in Pakistan e in India. Perchè penso che i medici afgani sono il futuro dell’Afghanistan e non di certo io, una povera piccola italiana. Insomma vivo così e nel mio piccolo cerco di fare il meglio e di aiutare concretamente chi ne ha bisogno. E’ tutto quello che ho sempre sognato di fare nella vita, non mi è mai interessato avere un posto fisso, guadagnare ogni mese lo stesso stipendio ma non fare quello che amo. Io ho sempre detto: se in cardiochirurgia non sono un fuoriclasse ma solo un chirurgo mediocre in mezzo ad un mondo cardiochirurgico di mediocrità, ritorno a fare la cameriera. Per fortuna non sono tornata a fare la cameriera!
Scrivimi ogni tanto, quando hai tempo o magari quando ti senti un po’ sola!
Un abbraccio gigante.
Fede

 

Il mio Afghanistan

“Non si possono contare le lune che brillano sui suoi tetti,
né i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi muri”

   Saib-Tabrizi

“Il mio Afghanistan” di Federica Iezzi

   Una distesa di montagne impenetrabile, dipinta del colore candido della neve, con un labirinto di vie sfumate che sembravano essere state tracciate solo con la matita, capaci di sparire nel nulla da un momento all’altro.

Sulle montagne che circondavano come una poderosa cintura Kabul, irrompevano grossi massi bianchi. Le traiettorie rettilinee tra questi massi indicavano le zone prive di mine antiuomo, per cui le zone sopra le quali era possibile camminare.

Non è stato difficile capire che ero atterrata in un Paese che portava ancora profonde e insabbiate ferite di una estenuante guerra. Quello che si respirava nelle strade di Kabul era l’aria fredda e secca della montagna e la polvere in grado di permeare ogni cosa, perfino quell’aria che sembrava immacolata. Il fragile sole riscaldava la terra arida ma era poco per coprire la rigidità dell’inverno. Ogni angolo era occupato da militari e polizia locale con in braccio le loro armi e con le cartucciere a tracolla. Apparivano repentinamente quasi scolpiti nel paesaggio. Sfrecciavano invisibili mezzi e personale dell’UN e della NATO con tutti quei nomi strani delle varie “missioni di imposizione della pace” che si sono susseguite.

Ai lati delle strade caotiche, in continuo mutamento, vive e vissute, vecchi uomini dai lineamenti scolpiti vendevano legna. Avevano una lunga barba curata, erano vestiti con i loro shalwar, larghi e cascanti pantaloni a mezza gamba, e lunghe casacche chiare con sopra una specie di gilet scuro ed erano coperti da ispidi mantelli di lana. Il loro capo era coperto dai chapans, dalle kefiah o dai pakul. E rispetto alla posizione del copricapo, si poteva percepire se erano sciiti o sunniti.

Una donna per stare fuori di casa doveva mettere il velo. Le anziane donne portavano il burqa afghano blu, con una retina posta all’altezza degli occhi che permette solo una visione parziale, si vede solo ciò che è davanti a te e non lateralmente. Le donne adulte invece indossavano il chadar, simile al burqa completo, con la differenza che sul davanti questi abiti coprivano solo il petto, le braccia rimanevano scoperte. Le origini di questi indumenti risalgono ai primi anni del ’900, con la motivazione di proteggere la bellezza delle donne, la profondità degli occhi e il colore della pelle. Il Corano infatti parla della sola copertura del capo, non accenna invece alla copertura del viso o del corpo. Le ragazze portavano solo la hijab. Le bimbe erano autorizzate a tenere il capo scoperto, anche se tutte, incredibilmente, sceglievano di mettere un sottile velo sulla testa, forse più per ripararsi dal freddo.

Le case erano costruite con mattoni di fango, intonacate dallo stesso fango, e apparivano, agli occhi ingenui, protette da alte mura di cinta. Attraverso le fessure nei muri, passavano indisturbati i raggi di quel fragile sole.

L’ospedale era affacciato su uno dei viali più grandi di Kabul, in una zona vecchia della città, dove negli anni ’20 sorgeva il primo ospedale, devastato dalla guerra. Sono rimasti solo la muratura di un vecchio edificio, pieno di buchi di kalashnikov, e un ponte che metteva in comunicazione due ali dell’ospedale. Tutto era circondato da conifere che creavano un vasto giardino interno. Oggi di quegli alberi sono rimasti solo alcuni abeti, del giardino non è rimasto nulla, solo ghiaia polverosa e un’altalena di ferro dove i bimbi giocano senza allegria. La terra è  disseminata dai segni della guerra: frammenti di proiettili, alberi sfrondati e spogli, macerie di muri crollati.

Il saluto per queste persone è l’inizio di una conoscenza profonda che non ci si aspetta, ma che invece contro tutto e tutti si arricchisce ogni giorno di piccole cose. Il palmo della mano destra portato sul cuore mentre si scandisce “Salam alaykum” e una tazza dell’asiatico te verde bollente senza zucchero: si inizia così. I pasthun, tra i più conservatori, componente etnica principale dei talebani, raccontavano le loro storie di guerra, come facevano i nostri nonni con la seconda guerra mondiale. Loro non hanno mai lasciato l’Afghanistan per i campi profughi pakistani, per l’Iran, l’India e l’Europa; nei momenti più difficili, loro erano accanto alla loro terra.

Convivono decine di etnie in Afghanistan, quattro sono le principali: pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, con le loro rispettive quattro lingue: pashtu, dari, uzbeko, hazaragi. Queste popolazioni sono disposte ai quattro angoli della cartina afghana. Le montagne e la lacuna di comunicazioni, danno oggi il risultato che questi quattro popoli, figli della stessa terra, non si possano comprendere tra di loro.

I pashtun hanno grandi occhi marroni, la carnagione scura e molti di loro hanno la barba curata, segno distintivo di un uomo diventato adulto.

Capelli e occhi scuri  disegnati sulla pelle chiara: è la fisionomia dei tagiki.

Gli uzbeki, ruvidi e duri, hanno occhi a mandorla, gote rosse, perchè abitano alte montagne, e capelli corvini.

Il popolo hazara, dai lineamenti marcatamente asiatici, discendono da incroci tra guerrieri mongoli. Hanno visi tondi come bamboline cinesi, pelle chiara con qualche lentiggine, occhi azzurri, capelli ramati.

L’adhan in Afghanistan si infiltra tra le vette elevate delle montagne, attraversa le vallate, punge l’aria fredda per arrivare nelle case di chi aspetta di pregare. Il richiamo lento e scandito accompagna gli uomini e le donne che sopravvivono grazie al ripetersi di questi semplici rituali.

Questo splendido Paese continua a ferire se stesso in uno spaventoso susseguirsi di alleanze, tradimenti e massacri. Non immagini mai il rumore di un’esplosione fino a che il fragore violento non ti entra prepotentemente nelle orecchie e non ti rimbomba in testa per giorni. Perchè la bomba non fa differenza tra bambini, anziani, malati o sani. E dopo pochi minuti, ti ritrovi inerme dentro un enorme ospedale, in compagnia solo delle grida di centinaia di bambini, che invece per natura dovrebbero correre e giocare liberi sulle strade. Tutti aiutano tutti, questa gente è speciale. Ognuno di loro lotta per la vita e, nella più sconvolgente disperazione, trova il tempo per aiutare chi gli è accanto in quel momento, non importa se è sciita o sunnita, pashtun o hazara. Si pensa alla sala operatoria come ad un luogo magico, da cui si ritorna come prima. Ma in quella stanza non c’è Dio, ci sono solo poveri uomini che cercano di fare tutto quello in loro possesso, nel disastro più estremo, per strappare anche un bimbo in più da una morte sleale. Ci sono cose che non si possono raccontare, l’unica maniera di conoscere è sentire e vedere.

Sono affascinanti i minuscoli panifici di Kabul. In Afghanistan molte famiglie dipendono da questa attività e dal consumo del Nan-i-Afghani, il pane non lievitato che mangiano tutti gli afghani.

All’interno dei negozi, ci sono spesso bambini vestiti di bianco, scalzi, nonostante le temperature glaciali, che lanciano mucchietti di pasta ammassata al cuciniere. Questo, dopo averla stesa, la introduce ordinatamente in forni verticali, differenti dai nostri forni dalle forme orizzontali e con due ferri lo fa aderire alle pareti. Dopo pochi secondi lo tira fuori, fragrante e caldo. E sorridono, divertiti per l’intrusione di stranieri buoni.

In alcune zone di Kabul i mujaheddin tagliarono le linee per la conduzione elettrica. Per cui nel bel mezzo di una città, che fa di tutto per mostrarsi moderna e competitiva con la prosperità occidentale, appaiono queste zone prive di luce elettrica e illuminate nella notte solo da flebili fiammelle. In queste zone, il balcone di ogni casa è dotato di un piccolo generatore di corrente. Il rumore che proviene da quell’aggeggio è continuo e penetrante. Dopo il tramonto del sole, Massud e i suoi “combattenti per la fede”, non permettevano quel rumore, così tutti i generatori si spegnevano e nelle case iniziavano a comparire fioche luci, date dal fuoco.

Al tramonto le vie di Kabul sono deserte, solo le ombre non definite di persone senza una casa, si riscaldano ai piedi di piccoli fuochi, ai lati delle strade.

Nell’intenso buio si vedono solo girare i lampeggianti blu delle auto della polizia locale, si intravedono uomini armati ad ogni incrocio, con indosso una sorta di passamontagna nero e con grosse torce in mano. Non è difficile notare che al passare di ogni auto, questi uomini guardano, come prima cosa, se le donne portano il capo coperto. Quando nella notte di Kabul, apparivano come fulmini, lampeggianti verdi, ti dovevi aspettare massicci mezzi blindati che solcavano le strade, con le loro scritte “Army”, e ti dovevi aspettare una perquisizione attenta ed accurata.

Arti artificiali, grucce e sedie a rotelle sono parte integrante del commercio afghano. Enormi gruppi di bambini affollano le riabilitazioni dopo essere saltati su una mina antiuomo, mentre in primavera rincorrevano i loro aquiloni, e dopo aver perso le gambe e le mani. Aspettano la loro protesi e, senza versare una lacrima, iniziano il rito. Indossano una calza di lana marrone, utilizzata per non creare piaghe sullo strato delicato di pelle che risulta dopo un’amputazione, poggiano la protesi a terra e la indossano con un movimento sicuro e veloce. Le lunghe sale li aspettano. Pronti, iniziano a camminare, appoggiati alle sbarre di metallo.

Nel centro della città, quasi tutti i piccoli edifici a un piano che si affacciano sulle strade, ostruite di traffico e di bambini, che corrono tra buche e deviazioni, da un’auto all’altra, elemosinando o vendendo piccoli articoli, sono botteghe in cui si macella carne, si vendono stoffe, pelli o tabacco, si riparano scarpe.

Questi edifici si nascondono tra alti muri in cemento, i cui profili sono disegnati da filo spinato, tra  fortini in miniatura, dotati di sacchi di sabbia e poliziotti o militari afghani armati di mitragliatori, con lunghe cartucciere sempre piene e a vista, come accessorio.

Elicotteri sorvegliano il cielo e fanno tremare la terra. La gente cammina indisturbata sui malaticci marciapiedi tra fucili, granate e pistole, tra kalashnikov e veicoli blindati, ognuno con un uomo alla mitragliatrice in torretta. Comprano e vendono davanti ai muri che mostrano ancora i grossi fori dei proiettili sparati durante la guerra, sotto grossi cartelloni pubblicitari di acciaio, vagamente simili a quelli occidentali, che promuovono la Roshan.

Sembra che tutta la violenza di queste immagini quotidiane sia percepita come lontana e non come qualcosa che ti è di fronte e che può perdere il controllo da un momento all’altro.

A me in Afghanistan regalano un pugnetto della prima neve della stagione, segno di grande stima e rispetto, perchè non sono qui per progettare sistemi operativi Pakistani o per prendere notizie dai servizi segreti spagnoli, ma sono in mezzo all’abbandono di pashtun, hazara, tagiki e uzbeki per curare i loro bambini, che un giorno prenderanno il posto di quelle persone che hanno massacrato la vita di questo paese.

   Federica Iezzi

 

 

  I meno due gradi delle notti afgane

“Il mio Afghanistan” di Federica Iezzi

Soraya arriva dal sud dell’Afghanistan, terreno incontrastato dei talebani. Hanno scelto questo nome dal plurale di “talib”, che significa: colui che cerca la conoscenza. Sono apparsi come i primi difensori disinteressati dei più deboli, contro i rapaci signori della guerra, per poi finire ad applicare la più rigida e inumana interpretazione della shari’a.

L’abbiamo chiamata un tardo pomeriggio sul telefono per andarla a prendere nella sua casa vicino Kandahar e per portarla in ospedale. Ma il telefono non squillava, non sembrava nemmeno spento. Poi mi hanno spiegato che nella terra dei talebani tutte le comunicazioni, per cui anche le linee telefoniche, vengono interrotte ogni giorno dalle cinque del pomeriggio alle sette del mattino successivo.

Con la sua mamma ha dovuto camminare per tre giorni, prima di arrivare a Kabul, nei meno due gradi della maggior parte delle notti afghane. La mamma ha perso un braccio durante la guerra, quando i frutteti di melograni afghani sono improvvisamente diventati pesanti e aridi campi, disseminati di mine antiuomo.

La mamma di Soraya mi racconta in pashtu che mentre si esce dagli ultimi sobborghi dei centri abitati, negli spogli e devastati altipiani, non è raro incontrare cimiteri, anche non lontani dalle abitazioni. Le tombe sono indicate con pezzi di lamiera o spuntoni di sassi piatti e c’è una netta separazione tra quelle pashtun e quelle hazara. Non c’è più un fiore e raramente si intravede un nome. Quando era ancora una ragazza, amava raggiungere quella Kabul dai soli 600.000 abitanti, con case semplici e pulite, al massimo costruite su due piani. Adesso fa fatica a riconoscere la Kabul dai sei milioni di abitanti, con palazzi alti quanto le montagne brulle e con un traffico disorganizzato e disarmonico. I talebani hanno proibito le immagini del mondo dei sogni di Bollywood o di Hollywood, che una volta erano disseminate sui muri della città, perchè non è consentito guardare una immagine senza anima, per preservare l’integrità e il carattere islamico dell’Afghanistan.

A Soraya abbiamo tolto il tubo che l’aiutava a respirare solo dopo due ore dall’intervento al cuore. Una cosa che può risultare naturale nei paesi facoltosi, dai grandi sprechi, qui diventa un grande successo. Viste le spese altissime, contro cui una famiglia deve combattere per raggiungere un ospedale, almeno per chi ha la fortuna di avere uno stipendio che oscilla tra uno e tre dollari al mese. Visti i nemmeno 10 chili che i bambini pesano a 5 anni. Visto che invece di usare le bruciature sulla pelle all’altezza del cuore, una madre può vedere correre la propria figlia, senza il terrore di trovarla ferma ai bordi delle strade polverose, con la schiena curva per la mancanza d’aria.

Spesso Soraya dimenticava di indossare il suo velo, quando correva su e giù per il corridoio del reparto, sempre inseguita dagli occhi vigili della mamma, così i suoi capelli corvini sembravano trasportati dal vento. Quando era stanca si aggrappava al lungo abito di velluto della mamma, alzava la sua innocente manina per salutare tutti e tornava nel suo letto. La madre stendeva un tappetino per terra e insieme alla figlia iniziava la alāt al-ʿar ,la preghiera del pomeriggio.

                                                                                                                               Federica Iezzi

French Medical Institute for Children – Kabul (Afghanistan) – Surgical mission 2011-2012

 



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