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Ci incontrammo alcuni anni fa, non lontano da questa riva della Mosella. Come allora, le vecchie finestre della cattedrale occhieggiano fra le modeste arcate del ponte di pietra e, al tramonto, le foglie dell'edera sembrano screziate di rosa. Non sono sicuro dei miei ricordi. Ad esser sincero, in quegli anni ero certo di ben poche cose: di quella sera, fra le certezze posso enunciare molti bicchieri di vino di Borgogna, i fianchi sodi e il seno generoso di una delle cameriere del "Benoit", e la combriccola di perdigiorno con mi cui accompagnavo nelle notti d’estate, da studente, a Toul. Quello però era un giorno di fine settembre: il clima mite era già guastato dai primi rigori dell'autunno incipiente e gli amici, dopo un numero imprecisato di andirivieni sul lungofiume, fra stornelli lascivi e discutibili interazioni con i rari passanti, si erano decisi a passare al caldo il resto della serata, ciascuno nel proprio letto.Io invece avevo ancora in corpo troppo vino per desiderare una notte tranquilla e me ne restai a passeggio, in compagnia del gorgoglio allegro della Mosella, nel quale credevo di intendere una qualche melodiosa suggestione. Una placida bruma aveva preso a salire dal centro del fiume e le sue pigre volute carezzavano i canneti, indugiavano sui rami ancora frondosi degli alberi, per poi lambire con lente carezze la base dei lampioni sull'argine, dando ai guizzi dei lumi a petrolio un aspetto fumoso, che doveva apparire inquieto, forse spettrale, e che a me sembrava invece tanto struggente quanto romantico.
Giunsi all'altezza del ponte, dove il viale alberato lungo l’argine piega all'improvviso verso il centro del borgo, tuffandosi decisamente nel vivido tramestio delle piazze principali della città. Il refolo dispettoso di una brezza autunnale mi frugava fra il bavero e il colletto, insinuandosi come un dito freddo nella pelle scoperta del collo: tuttavia, non volli abbandonare la suggestione del lungofiume e mi rifiuta di proseguire il cammino per la strada principale, preferendo inoltrarmi nel viottolo che continuava a risalire la Mosella. Fu lì che notai, appena lasciate alle spalle le luci più forti delle insegne e dei lampioni, che qualcos'altro mi rischiarava il cammino, ammiccando in lontananza con un bagliore allegro, come la fiamma scoppiettante di certi composti chimici, quando vengono esposti all’aria. Incuriosito, mi avviai volentieri alla sua volta: ai miei sensi ingannati l’intricata sterpaglia dell’argine appariva un giardino segreto, e la massa vorticosa del fiume, che rimbombava nel buio, suonava come lo zampillio di una fonte cristallina che gorgoglia in pieno sole. Ignaro di me stesso, seguivo la mia strana stella come un folle Re magio, smarrito nel deserto dei miei pensieri dissennati. D’improvviso, mi accorsi che la fonte di quella luce pulsava poco più in là, oltre un piccolo gruppo di alberi che crescevano lungo la riva: mi avvicinai senz’altra cautela che quella di rivoltarmi l’orlo dei calzoni, perché non si inzuppassero di fango. La bizzarra visione si può descrivere come una sfera avvolta in un’aura abbagliante: stava a poche spanne da terra, fluttuando forse, ma era difficile stabilirlo perché l’intensità del bagliore che emanava rendeva impossibile fissarla direttamente per più di un breve istante. Per di più, la luce pulsava, alternando in fretta una fase più vivida ad una più smorta, ma sempre assai vivace, e nel farlo mutava di colore. Ebbi l’impressione che tutte queste variazioni avvenissero seguendo una logica precisa, che però non riuscivo a decifrare: né ebbi il tempo di approfondire la questione perché quell’essere – non stentati a definirlo tale – quasi subito mi parlò. Sarebbe impreciso dire che conversammo: non posso asserire con certezza che si esprimesse a parole, piuttosto che tramite un qualche genere di trasmissione del pensiero. Inoltre mi limitai ad emettere qualche gemito inarticolato, sconvolto com’ero dall’insolita situazione. Disse di essere un numero, intendendo con questo l’essenza, l’espressione fisica di una precisa e specifica quantità, che si è soliti rappresentare con una successione di cifre; per la precisione, avevo davanti un numero irrazionale, fiero e consapevole delle proprie caratteristiche. Non ebbi comunque tempo di riflettere sulle straordinarie dichiarazioni di quella palla sfrigolante, perché questa passò subito ad illustrarmi la sua incresciosa situazione: si dichiarò in pericolo, braccato da un’innumerevole – in senso letterale – schiera di nemici, decisi a fargli la pelle. Affrettando le spiegazioni e pigiandole a forza nella mia povera testa, mi fece intendere che nel mondo dei numeri era in atto una rivoluzione: la cosa aveva preso una piega sanguinaria e la sua fazione stava subendo una persecuzione spietata. Lui era scampato per miracolo ad un brutale eccidio, rifugiandosi nel nostro mondo come atto di pura disperazione.Ora io, che a quel tempo non mi interessavo delle sottigliezze della matematica, sapevo invece che vuol dire esser fuggiasco, perché mio padre aveva pagato di persona l’essersi schierato in guerra dietro ad un vessillo, ed avevo toccato con mano quanto brutale può essere il cuore di chi insegue un nemico. Per cui, senz’altre riflessioni, allungai la mano, afferrai la sfera luminosa e me la ficcai sotto la giacca, accingendomi a risalire la riva verso casa. Il contatto con il numero irrazionale non mi procurò altra conseguenza che un lieve pizzicore al fianco e, con il passar dei minuti, un senso non spiacevole di vago calore, quasi che tenessi acciambellato contro il mio corpo un gatto sornione, intento a farmi le fusa.Nel tragitto, il mio protetto continuò a riferirmi nuovi particolari della sua vicenda; mi raccontò che da loro – ma quale fosse il luogo che intendeva figurare è rimasto un mistero - era in atto una disputa di natura filosofica e teologica, che aveva al centro il concetto di finitezza dei numeri. Si trattava, per quegli esseri, di una questione di estrema importanza, un problema ad un tempo ontologico e metafisico, essendo oggetto riguardante sia la determinazione dell’individuo-numero, sia il suo significato ulteriore, in relazione all’universo e al suo divenire. Pur stordito da quel modo alieno di comunicare, mi trovai ben chiari in mente alcuni concetti di base della loro filosofia: vi era un postulato, universalmente accettato da tutti i numeri, per il quale ogni cifra discendeva da un Principio Innumerabile e Assoluto. La questione dibattuta riguardava l’istante dell’origine dei numeri: qui stava il nocciolo della questione, per la quale da eoni, e con crescente foga, si disputavano due dottrine e i loro seguaci. Da un lato i Numeri Naturali, tronfi nella loro rotonda finitezza, asserivano che il tempo necessario a generare il numero era esattamente determinabile, per quanto piccolo fosse l’intervallo temporale nel quale il Principio generava ogni cifra. Invece gli Irrazionali, essendo composti di una successione infinita di cifre, per di più impossibili ad esprimersi tramite un rapporto di numeri interi, sostenevano che il loro Sommo creatore agiva fuori dal tempo, altrimenti nessuno di loro sarebbe potuto definirsi completamente creato. Appunto ciò che asserivano i Numeri Naturali, che ritenevano che ogni successione di cifra nata al di fuori di un rapporto di interi fosse esterna all’emanazione del Principio Innumerabile e Assoluto, e dunque da considerarsi corrotta e abominevole.Ovviamente a questa logica non poteva certo sottostare tutta la moltitudine degli Irrazionali, che ne venivano orrendamente discriminati, assimilati addirittura a sostanza diabolica e immonda. Essi dunque per contro sostenevano che il Principio stesso era illimitato, così come innumerabili erano gli intervalli infinitesimi della generazione degli irrazionali, i quali, con la loro inesauribile progressione di cifre significative, simboleggiavano al meglio quel continuo divenire creativo dell’Essere Perfettissimo. Erano invece gli striminziti e insignificanti Naturali a rappresentare, con la loro irrimediabile finitezza di cifre, l’esecrabile scandalo di un’orrenda aridità spirituale. Lo scontro senza quartiere era inevitabile. Nel poco tempo che l’ospitai, ebbi modo di comprendere che il mio amico, non si poteva definire né invasato, né intransigente: mi fece intendere che lui stesso, lungi dal ritenersi vicino a coloro che propugnavano la violenza come mezzo per imporre la propria visione delle cose, si era impegnato da molti secoli negli sforzi per trovare una conciliazione fra le due opposte fazioni. Vi erano infatti un’infinità – come potrebbe essere altrimenti – di numeri di buon senso che vedevano inutile quella sterile lotta. E mi fece capire anche che, fra numeri, a farsi la guerra non c'era punto gusto, dato che ogni frazione poteva contare in un quantitativo infinito di sostenitori e allo stesso tempo aver contro una moltitudine innumerabile di avversari. Poco importa se, come caso degli irrazionali, i sostenitori si raggruppavano in un infinito di ordine più grande di quello dell'altra fazione (essendoci posto per una schiera sterminata di irrazionali, ad esempio, fra 3/4 e 7/8), perché quando c'era da arrivare al sodo e si dovevano menar le mani, saltavano sempre fuori mucchi di esaltati e lui, che con le sue idee conciliatorie si era inimicato anche buona parte dei suoi, finiva comunque per prendersi botte da orbi.Rincuorato dal mio sostegno, forse convinto di essere finalmente al sicuro, l’essere che avevo soccorso finì per lasciarsi andare ad un complicato monologo, nel quale, credo per sdebitarsi verso la mia ospitalità, tentò di spiegarmi i dettagli della sua intricata dottrina. Aveva a che fare con la sua convinzione dell’esistenza di un’altra famiglia di numeri, non algebrici, ma non semplicemente irrazionali. Qualcosa di talmente alieno alla cultura dell’Intero da essere situato al limite della pura follia. “Numeri Trascendenti”, li aveva chiamati. O così mi pare, ancor oggi, di rammentare, fra i mormorii dei sogni più lontani e profondi. Perché quella sera, pur consapevole che le sue rivelazioni avrebbero potuto rivelarsi di importanza capitale, non fui purtroppo capace di resistere a lungo alla stanchezza.Il giorno dopo, l’alba di un mattino grigio spazzava senza convinzione le nubi basse sopra al fiume, ammucchiandole in un orizzonte livido e opprimente: era l’inverno, forse, che di soppiatto si era seduto sopra il mondo con la sua cappa invisibile. O si trattava solo dei postumi della sbornia. Ma qualcosa mi impediva di mettere a fuoco le facciate chiare delle case, allineate ai margini del vialetto che portava all’Università. Mi ero alzato di scatto, svegliandomi all’improvviso, la stanza illuminata a giorno: del mio protetto, nessuna traccia. Forse era fuggito ancora, senza aver cuore di svegliarmi per dirmi addio. O forse, in qualche modo, l’avevano preso. Non c’era modo di saperlo e non me ne curai a lungo. Ad occupare i miei pensieri era il dilemma, se il groviglio di eventi e immagini che i ricordi attribuivano alla trascorsa notte fosse solo follia, o se non era composto almeno in parte da elementi reali. Conclusi che il fatto aveva ben poca importanza: col tempo mi accorsi che, delle rivelazioni del mio amico irrazionale, ricordavo molto di più di quanto avessi creduto all’inizio. Un seme era stato piantato nelle profondità della mia mente e nulla avrebbe potuto evitargli di germogliare. C’era almeno un pensiero lucido, qualcosa di tangibile che orbitava ai margini della mia capacità di comprensione: era inutile cercare di afferrarlo prima del tempo. Quel germe di idea era ben solido, vigoroso, e alla fine avrebbe dato i suoi frutti.
“Numeri trascendenti” – continuavo a ripetermi. Lo faccio anche adesso, dopo alcuni anni da quella notte. La semplice espressione sembra un guizzo di puro genio: ed io, Joseph Liouville, un giorno sarò ricordato per questo!
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