Io ho deciso che sono grassa. È una grassitudine nuova, che non so come gestire. È la grassitudine di chi si guarda allo specchio e vede i rotolini di ciccia che strabordano dai jeans che prima stavano giusti giusti, forse anche un pochino larghi. È la grassitudine delle cosce che già prima erano grosse e adesso anche peggio. È la grassitudine dei maglioncini che tirano e prima ci stavano dentro due di te. Laddove «prima» è un anno fa. Uno dei due, facciamo tre, momenti della mia esistenza in cui sono stata sinceramente magra. La magrezza sincera è quella che non ha paura del costume da bagno, quella che può permettersi di indossare tessuti elasticizzati, quella che non teme il segno delle mutandine sui vestiti, perché tanto nessun abito ti starà mai tanto stretto da far vedere per bene quel segno là. Dicevo: in due/tre momenti della mia esistenza mi piacevano i pantaloni a vita bassa perché potevo permettermeli.
Fatta eccezione per quegli stati di grazia – in un caso ero terribilmente depressa, nell’altro lavoravo in un posto di modelle, quindi avevo un complesso d’inferiorità che non sto qua a raccontarvi, nell’ultimo ero appena nata – nel resto della mia vita sono sempre stata una ragazza normale. Attiva, spesso in movimento, ogni giorno in giro.
Da quando mi sono trasferita a Milano, invece, prendo chili a vista d’occhio. Uno dopo l’altro vedo i grammi accumularsi sul sedere, osservo i buchi della cellulite farsi più profondi di un trattato di Kant, scopro che la cintura per tenere su quei pantaloni non è più necessaria. E mentre mi sento una vacca, di solito, cucino. Tento di imparare la pasta frolla, faccio creme pasticcere al cioccolato fondente, torte salate di patate con gli spinaci e parmigiane di zucchine inzuppate di besciamella. E mentre lecco le posate mi lamento dell’ultimo enorme brufolo che m’è spuntato sulla fronte. Bevo mille litri di tè e tisane disintossicanti, drenanti, anestetizzanti, parlanti e cantanti, ma una birra in frigo dura giusto il tempo di raggiungere la temperatura ideale per essere bevuta se non tutta d’un sorso quasi. Per farla breve: sono nutrizionisticamente un disastro.
Allora ho deciso di fare sport. Per quanto mi riguarda, lo sport l’ha inventato qualcuno che ce l’aveva col genere umano. Lo sport è sudato, puzza, ti fa diventare una persona competitiva, ti fa venire fame, ti costringe a scoprire che hai muscoli in posti che non supponevi potessero diventare muscolosi. E lo dice una che ha provato tutti gli sport esistenti al mondo, facendo schifo in ciascuno (tranne che nel nuoto, solo che ho il piccolo problema che entro in piscina sana ed esco con la febbre, sempre). Ho fatto ginnastica artistica, basket, pallavolo, judo (veramente, judo), danza hip-hop, spinning, gag, pilates. E ogni singola volta che cominciavo una lezione dovevo fare i conti con la mia incapacità. Ci è voluto un fallito tentativo di fare shopping (fallito perché la roba non m’entrava, mica per altro) per convincermi a prendere appuntamento con la palestra.
Il giorno che sono andata vedere com’era fatta la palestra mi sono vestita come per le grandi occasioni. Ho pensato: «Fintanto che devo solo iscrivermi, posso tentare di dare di me una buona impressione». Ero perfettamente cosciente che la prima volta che m’avessero vista in tuta, completamente scoordinata in qualsivoglia movimento avessi tentato, avrebbero riso di me. Per questo, sembrare una persona normale era per me fondamentale. Sono entrata in quel luogo di torture e mi sono presentata alla tipa che aveva il compito di spiegarmi i corsi. Tentando di darmi un tono ho risposto alle sue affermazioni fingendo competenza: «Abbiamo anche la piscina, ha un costume da nuoto agonistico?», faceva lei; «Certamente. Ma mi dica, il corso di pilates che fate qui è di tipo dinamico?», rispondevo. Oppure: «Mi perdoni, la sala cardio è separata dal resto della palestra?». O anche: «Ogni quante settimane viene cambiata la scheda con gli esercizi da fare agli attrezzi?». Dopo una lunga visita alla struttura, l’unica parte che aveva seriamente attirato la mia attenzione era quella con la sauna e il bagno turco. Che nella mia personale idea di «dimagrimento» sono posti in cui entri Gegia ed esci Belen.
Finito il giro turistico, ho firmato un fogliettino con una quantità spropositata di dati. Quando la tipa stava per chiedermi il nome del medico che aveva fatto partorire mia madre, ho salutato e sono uscita. In tasca avevo il tesserino per una settimana completa di prova. Ho fatto cinque passi, ho preso il cellulare con l’intento di comunicare al mondo il mio gesto eroico e non ho visto che il marciapiede finiva. Così ho messo il piede male e sono caduta. Prima di rendermi conto di essere inciampata, ero spiaccicata sull’asfalto in una posizione indecorosa. E, soprattutto, avevo la caviglia destra che urlava vendetta. Per rialzarmi – rotolando sulla schiena, come le tartarughe – ci ho messo un tempo variabile tra i cinque e i quindici minuti. Ma quando ci sono riuscita ho scoperto di non essere in grado di camminare senza zoppicare. La rabbia per la caduta, l’imbarazzo per la figuraccia in mezzo alla strada e il fastidio per l’invalidità temporanea hanno lasciato spazio in pochi minuti a una nuova ed esaltante sensazione. Era il sollievo. Avevo trovato una scusa, valida, per non cominciare la palestra. E per non entrarci mai più. Mai più.