Leggendo Il mio nome è Frank de Jung (nome dagli echi fiamminghi, di quel Belgio che è luogo di efferatezze coloniali, ah… il conradiano Cuore di tenebra, oggetto che si trasfigura nel magma esiziale di Apocalypse now, ah… quelle stragi congolesi dalle risonanze di "mondo movies" jacopettiani e di mercenari katanghesi che tingono di sangue i Sessanta e i Settanta) è naturale pensare che questo romanzo avrebbe immediata cittadinanza tra quelle opere che contengono tracce da interpretare, da decrittare. Frank Gonella, "nom de plume" di un autore che è ben più di un creatore di trame che sarebbe troppo facile definire noir, con sapienti pennellate che fondono ossessioni pynchoniane e report alla Marc Saudade di El Centro (romanzo che è pietra miliare ahimè troppo poco riconosciuta di un certo narrare che è stato bolaniano un ventennio prima di Bolaňo) compila una mappatura potente e irrinunciabile di quel "nada" che sottende all’orrore di un’umanità che è sì simile a Dio ma anche simile al principe degli angeli ribelli Lucifero. Il mio nome è Frank de Jung è libro, saggio, romanzo, rapporto consegnato a chi avrà la consapevolezza di comprendere, narrazione per nulla politically correct (finalmente!), vaso di Pandora in cui coabitano satrapi nascenti dalla dissoluzione del comunismo e figli di London Fields alla Martin Amis. Esoterico come un papiro celato negli anfratti di una mastaba sumera o come un caleidoscopio di inquietanti alfabeti scolpiti sulle rovine di una città Maya, questo romanzo deve essere bagaglio necessario per chi sa che la parola scritta è solo un labile confine che segna l’avanzata di universi quantistici dove gli esseri senzienti si trasformano in una unità inscindibile in cui vittime e carnefici cantano congiuntamente l’eternità del male.
Un libro.
Il mio nome è Frank de Jung, di Frank Gonella (Wingsberthouse).