IL FILM
My week with Marilyn è il biopic della settimana, coronamento di un'annata foriera di resurrezioni per la bionda più famosa della storia del cinema, dopo l'affiche al Festival di Cannes e numerosi libri che cercano di fare il punto su cinquant'anni di 'Monroemania'. Il suo biglietto da visita vanta la bella e brava Michelle Williams nei panni della star hollywoodiana, l'ex maghetta Hermione-Emma Watson in quelli di una dolce sarta innamorata, l'istrionico trasformista Kenneth Branagh ad incarnare il commediante di sua Maestà Laurence Olivier, e alla produzione il boss dei boss Harvey Weinstein, già abile burattinaio ne Il discorso del re, due anni or sono. A differenza del suo premiatissimo predecessore, però, il film in uscita nelle sale italiane reca la firma di Simon Curtis, artigiano del video cresciuto in seno alla BBC, assolutamente privo di talento e di immaginazione. Un veterano degli sceneggiati televisivi che riesce, in poco più di un'ora e mezza, a ridurre in pezzi il piacevole ricordo delle battute sferzanti palleggiate tra Colin Firth, Geoffrey Rush e Helena Bonham Carter e la sobria eleganza registica di Tom Hooper, vera forza del successo di un film altrimenti minore. Rimangono un copione mediocre e ridicolmente prevedibile, un accento british finalmente liberato dalla balbuzie di re Giorgio, e un paio di prove attoriali da non buttare via (eccezion fatta per il giovane protagonista Eddie Redmayne, candidato all'Oscar per la più patetica espressione da adolescente attizzato che mente cinematografica ricordi). Ci auguriamo che Andrew Dominik, avvistato in questi giorni in quel della Croisette a fianco di Brad Pitt con Killing them softly, che da qualche anno ha in gestazione la trasposizione del romanzo Blonde di Joyce Carol Oates dedicato alla Monroe, con protagonista Naomi Watts, sia in grado finalmente di regalare a Marilyn lo spessore che merita. Conforta sapere che il cineasta neozelandese abbia descritto la futura opera in maniera niente affatto convenzionale, come una fiaba dai contorni inquietanti, “la storia di un'orfana che si perde nei boschi”.
Ma torniamo a My week with Marilyn. Tratta dal racconto, sembrerebbe autobiografico, di tale Colin Clark, la fiction...sorry, la pellicola narra dell'incontro tra un imberbe ereditiere in odore di ribellione e l'irraggiungibile diva, atterrata nel 1956 nelle verdi campagne inglesi per girare la commedia romantica Il principe e la ballerina. Neanche a dirlo, la lista di cliché, ricalcata sul formoso stereotipo che decenni di pruriginosa ossessione mediatica hanno tratteggiato (non sapientemente, a giudicare dai diari dell'attrice recentemente pubblicati, da cui emerge il pensiero di una donna tutt'altro che stupida), è lunga almeno quanto l'elenco delle diverse identità che la sfaccettata maschera 'Marilyn Monroe' ha celato in sé, senza l'attenuante del benchè minimo tentativo di gettare nuova luce su quanto già detto-stra-detto: i clamorosi ritardi sul set, i modi gentili, le sagaci risposte alle paparazzate della stampa, la schizofrenia tra la donna in carne e ossa, Norma all'anagrafe, e l'icona di celluloide, i ciak sbagliati all'infinito e la dipendenza dalle droghe. Infine, la ferrea e un po' capricciosa volontà di essere riconosciuta come vera interprete e non solo bambolina da sfoggiare, complice la fascinazione delle celebrities dell'epoca per la moda dell'Actor studio, materializzata nel film dalla presenza, piuttosto caricaturale, del balia-mentore Paula Strasberg. La metamorfosi è compiuta: da stella del firmamento cinematografico, nelle mani di questo Simon Curtis, Marilyn si fa misero lumicino per tubi catodici.
Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo
L'ICONASi poteva, e si doveva, fare di più per una star che è stata immortalata dai più grandi maestri del cinema classico. Billy Wilder, Joseph Mankiewicz, George Cukor, Howard Hawks fino a John Huston, che la diresse nell'ultimo, malinconico Gli Spostati. Bella di una bellezza quasi mostruosa, certo peccaminosa, che i barbiturici resero immortale. Prima di una serie di famose vittime sacrificate sull'altare dello showbiz, che oggi termina con i nomi di Amy Winehouse e Whitney Houston. Lei che, nata castana, con la sua chioma ossigenata, poi canonizzata dal primo piano pop di Andy Warhol, tradusse in film il luogo comune secondo il quale Gli uomini preferiscono le bionde. Le sue mutandine fecero impazzire mezzo mondo sospese su una maliziosa graticola di areazione. Ai suoi piedi cascarono i più insospettabili. Persino, pare, Albert Einstein. E di lei si collezionano giudizi contraddittori: il regista Billy Wilder disse che aveva “un seno di granito ed un cervello di groviera”, per poi rettificare definendola “un genio”; fu comunque un gentiluomo in confronto al collega Tony Curtis che, a proposito di una scena d'amore girata con Marilyn in A qualcuno piace caldo, tagliò corto con un laconico "è stato come baciare Hitler". D'altra parte, dici Marilyn Monroe e nella bocca si accavallano sillabe di nomi, ad ogni nome corrisponde un'identità, ad ogni identità un'unico soggetto biografico. Norma Jean Baker, Marilyn Di Maggio, Marilyn Miller, The “Mmm” girl, l'amante dei Kennedy. Sia quel che sia, nessuna come lei ha meglio interpretato il ruolo di diva, che la morte in giovane età ha rafforzato grazie all'immagine incorrotta dal tempo. E se molte sono state nel passato le attrici portabandiera del divismo - figlio di una società di massa secolarizzata, che trasferisce il culto del sacro dalle sfere religiose alla laica Mecca di Hollywood – dalle androgine Greta Garbo e Marlene Dietrich alle maggiorate all'italiana Sofia Loren e Lollobrigida, Marilyn Monroe resta l'alfiere di una versione triste e tormentata dell'essere star. Idolo di un'America medio-borghese, mirabilmente affrescata nel film Quando la moglie è in vacanza, popolata da uomini formalmente fedeli e sessualmente frustrati, attratti dall'idea dell'adulterio, ma troppo bigotti per metterlo in pratica. Quell'America che la venerò e al tempo stesso la ingabbiò nel prototipo del provocante, civettuolo e svampito sogno erotico che tanto la fece soffrire. Di lì a qualche anno, scoppierà la tempesta ormonale del '68, e la brezza liberatoria del femminismo segnerà la sua piccola rivoluzione anche sui grandi schermi, con la sua galleria di donne emancipate e non solo belle. Per Marilyn però, sarà già troppo tardi.