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Il mio premier è un drone

Creato il 01 giugno 2014 da Albertocapece

Il mio premier è un drone

Anna Lombroso per il Simplicissimus

La guerra è come lo sfruttamento, la violenza, la sopraffazione. Tutti sono contro l’uso della forza, oggetto di diffidenza e ostilità, che non si fermano ai confini delle geografie meno estranee al pacifismo. Tanto che il rifiuto della guerra è un caposaldo della Carta delle Nazioni Unite e è espresso in gran parte delle Carte costituzionali, compresa la nostra.

Ciononostante con buona pace di tutti quelli che hanno esaltato la Venere europea contro il Marte americano, gli stati europei oltre che dall’euro sembrano indissolubilmente uniti dalla entusiastica partecipazione a vario titolo alle missioni “diversamente” belliche, secondo acrobazie semantiche e eufemismi sfrontati, tanto che dalla guerra del Golfo, quella in Jugoslavia, quella in Afghanistan e via via il ricorso alla forza è rientrato nemmeno tanto surrettiziamente come insostituibile opzione della politica estera. In barba alla Costituzione, a flebili obiezioni di un pacifismo retrocesso alla lagna di anime belle anacronistiche, quanto disfattiste, noi in varie funzioni, di punta o gregarie, siamo stati in Iraq, Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo,Afghanistan, Iraq, Libano, pronti a prestarci in Crimea, Ucraina, là dove Marte chiama.

E d’altra parte appartiene al pensiero forte anche la definitiva condanna del pacifismo come screditato residuo dell’epoca delle ideologie e delle appartenenze, che si combina con l’entusiastica integrazione tra i valori della nuova destra, travestita da accomodante e rassicurante moderatismo, dell’autoritarismo, del nazionalismo, della potenza e prepotenza, sostenuti dall’entusiasmo per la tecnologia dei droni, dell’occhio che sorveglia, ben mescolati con la colpevolizzazione della resistenza, con l’erosione dei principi costituzionali e alla privatizzazione della Carta, grazie anche a un presidenzialismo strisciante e a uno svuotamento del parlamentarismo. 

Così anche domani, in barba anche alle accuse di spese di rappresentanza più che inutili, offensive del buonsenso più ancora che della Carta, ormai ridotta a esile richiamo a valori arcaici, la nostra nomenclatura per un giorno in foggia ieratica e compresa si schiererà su scomode seggioline, sotto stinti teloni da scampagnata, a guardare una ridicola esibizione di muscolarità, forse per persuadersi e convincerci che non siamo una espressione geografica, una rampa di lancio, un sito per le intendenze, ma un potenza alla pari tra le altre. Ruolo irrinunciabile per chi vuole mantenere funzione e potere, anche di sopraffazione, grazie all’ubbidienza, all’acquisto di armamenti inefficienti, a dispiegamento di uomini, mandati magari a proteggere traffici opachi, a partecipare a interventi iniqui, che sempre i nemici servono a muovere le guerre e guadagnarci. Nel 2012 la spesa militare globale ammontava a 1.753 miliardi di dollari, pari al 2,5% del Pil mondiale, sostenuta per l’82% del totale da 15 Paesi, e il cui 58% è stato a carico degli Stati del nord America (40%) e dell’Europa occidentale (18%). Il Conflict Barometer, la pubblicazione annuale dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, in quello stesso anno ha monitorato 396 confitti in corso nell’intero pianeta, nove in più rispetto al 2011, 188 dei quali sono classificati come controversie e crisi, 43 “guerre altamente violente” e 165 “crisi violente”, per un totale quindi di 208 confitti armati, il numero più elevato mai registrato dall’organismo a partire dal 1945. I principali teatri di guerre note, anonime o dimenticate sono l’Africa sub-sahariana (19 guerre e 37 confitti violenti), la zona dell’Asia e dell’Oceania (10 guerre e 55 confitti), il Medioriente e l’area del Maghreb (9 guerre e 36 confitti). Deve esserci insomma un gran profitto nella cosiddetta “esportazione di democrazia”, a fronte di così poderosi investimenti. E poi sono guerre che si fanno fuori dai confini nazionali, altrove, che in patria invece manu militari le missioni belliche sembrano meno sanguinose e cruente, i nemici apparentemente immateriali si chiamano lavoro, diritti, certezze, sapere, democrazia.

Domani il ceto al governo starà a guardare e anche noi staremo a guardare, avendo perso se mai ne avessimo avuto, il controllo sullo Stato, sul Parlamento e sul governo, quindi sulle leggi che governano le nostre esistenze, la nostra pace, le guerre degli altri contro altri e contro di noi, si chiamano con sigle, con nomi dalla oscura potenza, ci controllano con i loro occhi elettronici, le loro telecamere, i loro droni, i loro giocattoli perversi, quelli che si vendono e si comprano nei grandi mercati della paura, dove il brand è alimentare e spacciare timori per avere in cambio pezzi sempre più ampi di democrazia. E frammenti sempre maggiori di umanità, che in fondo non appartiene al filone della letteratura fantascientifica sospettare che i soldatini al potere altro non siano che droni telecomandati.

 


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