IL MIO RACCONTO
8 SETTEMBRE 1943 – 4 AGOSTO 1945
Quel giorno, mi trovavo nel Fort La Malgue nella città di Tolone – allora, sede del
Comando della Marina Militare Italiana in quel porto militare, dove provvedevo alla
manutenzione delle apparecchiature radio rice-trasmittenti che collegavano il Comando
Marina con le batterie costiere che erano ubicate all’ingresso di quella rada.
Quel giorno era l’8 settembre 1943.
Rapidamente, si diffuse il comunicato delle 18.30. trasmesso da Radio Algeri su richiesta
degli anglo-americani, riguardante la firma dell’armistizio tra l’Italia e le forze angloamericane.
Alle 19.47, venne trasmesso dall’EIAR il messaggio del maresciallo Badoglio, che in
modo sibillino ripeteva quello che già sapevamo.
La notizia dell’armistizio ci prese con grande sorpresa, anche se, dopo la caduta del
fascismo, pensavamo che le cose sarebbero cambiate, ma nessuno di noi immaginava in
quale misura saremmo stati travolti dalla tragedia.
In quei mesi dell’estate del 1943, cioè dopo il 25 luglio, abituato ed educato durante il
regime fascista a “ Credere, Obbedire e Combattere “, leggendo gli articoli che
pubblicavano i giornali italiani sulla vita degli uomini del regime fascista, rimasi molto
impressionato; a tutto ciò si aggiungeva quanto avevano scritto i giornali sui partiti e
sugli uomini politici, prima e dopo il regime di Mussolini.
Per me, erano tutte cose di cui, fino ad allora, non ne avevo sentito parlare. Barzellette
tante,
ma niente di più. Di politica in casa, non se ne parlava.
La lettura dell’oscuro ed enigmatico messaggio del generale Badoglio, diede luogo da
parte nostra, al più profondo sconforto e alla convinzione che i nostri governanti, Sua
Maestà il Re in testa, ci avessero abbandonato alla nostra sorte.
Non ci voleva molto per capire che le cose andavano male, anzi, molto male per i nostri
rapporti con l’allora alleato tedesco.
Verso tarda sera, intorno alle ore 22.00, corse la notizia che alcuni carri armati tedeschi
avevano bloccato la porta carraia del forte.
Con l’animo triste trascorremmo la notte.
All’indomani ci furono contatti tra il Comando Marina Italiano ed i tedeschi; se ricordo
bene, passarono pochi giorni, dopo di che, ci fecero radunare sullo spiazzo del forte e ci
fecero mettere in fila per uno.
Chiesero a tutti di fare un passo avanti, qualora avessimo scelto di collaborare con loro;
allora stimai che sul piazzale fossimo circa 2000 tra graduati e marinai.
Fecero un passo avanti in 4 o 5, il resto non si mosse.
13 SETTEMBRE 1943
Il 13 settembre ci ordinarono di metterci in fila per tre.
Intuimmo che non ci portavano a fare una passeggiata; raccogliemmo le nostre poche
cose nello zainetto e sotto scorta ci condussero a piedi fino alla stazione ferroviaria di
Tolone, dove fecero salire su ogni carro merci sessanta di noi.
Il convoglio ferroviario era li che ci aspettava.
Ebbe così inizio un lungo viaggio, senza acqua per bere, cibo e nell’impossibilità di poter
assolvere alle più elementari necessità fisiologiche.
Cominciò il pomeriggio del giorno 13 e a parte qualche fermata più o meno lunga, durò
quattro giorni e cinque notti.
In ciascun vagone, al posto di otto cavalli, erano ammucchiate sessanta persone.
Una cosa tremenda e ciò durò giorni e giorni.
Durante una fermata del convoglio a Colmar, attraverso la grata del finestrino, mi
accorsi che di fianco al nostro vagone c’era una locomotiva a vapore che aveva sulla
fiancata il deposito pieno d’acqua. Presi allora il gamellino e rivolto al macchinista
dissi:”monsieur, s’il vous plait, un peu de eau”.
Dapprima se lo pensò, poi guardò in giro e infine mi diede l’acqua.
Ed era appena trascorso un giorno della nostra odissea.
Durante il viaggio, morti di fame e di sete, vedevamo sotto di noi, attraverso il
pavimento sgangherato del vagone, i fiumi che scorrevano pieni d’acqua. A’hi ingrata
terra.
Fu così che maturai l’idea di scappare alla prima occasione. E, lì per lì, pensai di fuggire
mentre attraversavamo una galleria.
Ne parlai con Luciano De Vecchi, un mio ottimo amico e concittadino il quale non era
convinto che sarei uscito bene dall’impresa, però io decisi di farlo, anche se mi giocavo la
vita.
Arrivò la galleria e feci scorrere il portellone per lasciarmi andare sul terreno sottostante,
ma, nel buio pesto,…del senno di poi son piene le fosse, e rinunciai.
L’ amicizia con Luciano De Vecchi era iniziata al Fort La Malgue dove l’incontro fu casuale
e dopo il nostro rientro in Italia proseguì poi negli anni a seguire con rapporti molto
cordiali tra le nostre famiglie.
Al presente non ho sue notizie.
19 SETTEMBRE 1943
Arrivammo così al giorno 19 in un luogo prossimo a quella, e lo seppi più tardi, che era
stata
la linea Maginot, ormai in disuso, e ci portarono al suo interno in alcuni stanzoni dove si
vedeva che erano stati in precedenza utilizzati per ospitare poveri disgraziati come noi.
Il mattino dopo, trovammo nel fossato del forte due marmitte contenenti patate bollite
con la pelle, abbondante terriccio ed acqua; poca cosa per gente affamata.
Purtroppo, quello fu l’inizio di un brutto periodo, per noi fu il peggiore castigo che Hitler
potesse imporci, negandoci la condizione di prigionieri di guerra, stabilendo invece quello
di internati militari, quindi senza nessuna assistenza da parte della Croce Rossa
Internazionale, cioè alla stessa stregua dei soldati russi prigionieri dei tedeschi.
Nel diritto internazionale, ”internato militare”, ricorre solamente per coloro che in quel
particolare momento si trovino sul territorio di uno stato neutrale, ma ad Hitler faceva
comodo
così. E così fu.
In questo modo, in pochi giorni, vennero smilitarizzati e deportati circa 600 mila soldati
italiani in Germania, dove furono destinati al lavoro coatto nelle industrie belliche
tedesche.
Quindi furono deportati ed io sono stato uno di loro.
D’altra parte, come si poteva essere considerati dai tedeschi prigionieri di guerra, se fino
al giorno prima facevamo parte dell’asse Roma – Berlino ?
Nei giorni seguenti, dopo una lunga marcia, ci portarono nella vicina città di Strasburgo,
dove ci fecero proseguire i lavori di scavo di trincee nelle vie della città, lavori che erano
stati iniziati da altri prima di noi.
In quelle ore con nostra grande sorpresa, da molte finestre vennero lanciati, verso di noi,
involti contenenti cibo.
Fortunatamente i nostri guardiani lasciarono fare. E ciò, successe anche nei giorni
seguenti.
Colgo ora l’occasione, chiedendo scusa per il notevole ritardo, per ringraziare la
civilissima città
di Strasburgo per la dimostrazione di affetto e considerazione verso di noi. GRAZIE
ANCORA!
Un mattino, su un ponte che univa le due sponde del fossato del blocco che faceva parte
di quella che era stata la linea Maginot, si presentò in divisa un ufficiale della milizia di
Mussolini il quale ci chiese di rientrare in Italia per combattere il nemico comune assieme
ai tedeschi.
Non seppi come terminò. Io non aderì.
FINE SETTEMBRE 1943
Verso la fine di settembre del 1943, con una lunga marcia, ci condussero a
Emmendingen nel Baden-Wurttemberg dove ci sistemarono al primo piano, in una
vecchia gasthaus (locanda) di legno alla periferia del centro abitato, in due stanzoni, uno
con un grande tavolo ed uno più piccolo, dotati di sedie e l’altro con strutture di legno a
due piani e sacchi ripieni di paglia.
Nello stanzone con i tavoli, c’erano gli armadietti dove noi sistemammo le nostre poche
cose.
Eravamo giunti a quello che fu per circa un anno il nostro lager.
Il responsabile di questo piccolo campo di prigionieri era un giovane feldwebel
(maresciallo) che era stato ferito sul fronte Russo, coaudivato da un soldato anziano,
entrambi della Wehrmacht (esercito) e da un civile anziano wachman (guardiano).
Con il dormitorio, chiamiamolo così, c’era un locale, dove noi per molto tempo, abbiamo
fatto i nostri bisogni e abbiamo pulito i nostri corpi e i nostri indumenti in condizioni
molto precarie.
Si noti bene che, a parte pochi rubinetti per l’ acqua, non si disponeva di una doccia.
Non parliamo poi dell’acqua calda. Il water era costituito da un asse di legno dove furono
praticati quattro fori che comunicavano direttamente con il deposito sottostante.
Oltre che per mangiare e dormire, gli stanzoni divennero e per molto tempo, la nostra
base per
andare a lavorare in fabbrica dove si faceva di tutto per l’ industria bellica, cannoni
anticarro, caldaie di vario tipo e genere e tante altre cose.
Dopo alcuni mesi, ci diedero un modulo per la posta da inviare ai nostri familiari con
lettera di
risposta – Kriegsgefangenenpost und Ruckantwortbrief – e così seppi che come
prigioniero di
guerra mi era stato assegnato il numero 72944 del M.-Stammlager V C.
Le condizioni di internati militari italiani, vennero confermate poi, il giorno che, con la
vernice bianca, ci stampigliarono sul retro dei nostri indumenti militari i caratteri IMI.
Oggi, diremmo che IMI sta per l’acronimo di Italienischen Militar Internierten.
Iniziammo così, alla fine di settembre del 1943, ad andare al lavoro in fabbrica in fila per
tre scortati in testa dal soldato anziano e in coda dal wachman, cosa che si ripeteva ogni
volta che si andava alla fabbrica e viceversa, cioè quattro volte al giorno.
Per nostra fortuna, la fabbrica si trovava non molto lontano.
A turno, ogni giorno, a mezzogiorno portavamo due marmitte, una contenente la
verdura liofilizzata e nell’altra le patate con la buccia e il terriccio, il tutto previamente
bollito, che venivano poi distribuite a tavola secondo un ordine preciso, iniziava là dove il
giorno precedente erano finite.
La fame era tanta che mangiavamo le patate con tutta la buccia.
Le verdure e le patate venivano distribuite senza l’aggiunta di sostanze che avrebbero
potuto migliorare il valore nutritivo di quel misero pasto. Non avevamo il sale e non c’era
nemmeno la brocca per l’acqua, i bicchieri, il coltello. Del cucchiaio non c’era bisogno
perché nel menù, non erano previsti cibi per il loro uso. Per la verdura liofilizzata
avevamo le forchette.
Durante la pausa per il pranzo ben poche cose potevamo fare e la fantasia ci mancava.
Potevamo dire, che eravamo abbastanza mal ridotti.
A fine settimana veniva dato un pacchetto di margarina di cento grammi e un pane di
piccole dimensioni di un chilo di peso e di difficile digestione.
Credo che fosse confezionato con diverse cose, meno la farina di grano.
In quei tristi giorni, mi ricordai di compiere 21 anni.
PRIMI MESI INVERNO 1944
Nei primi mesi dell’inverno del 1944, nella fabbrica dove lavoravamo, arrivarono
dall’Italia varie macchine utensili: frese, trapani di vario tipo, torni orizzontali e verticali,
macchinari che vennero presi nelle officine meccaniche del nord Italia e destinate alla
produzione bellica tedesca.
In fabbrica c’erano lavoratori di varie nazionalità, donne russe, alcuni ex prigionieri di
guerra francesi, noi militari italiani internati, comunque prigionieri, e pochi tedeschi per
la maggior parte anziani o fisicamente inabili a prestare servizio militare
Nelle ultime settimane della nostra presenza in fabbrica, inverno del 1945, ci raggiunsero
alcuni deportati, credo ebrei tedeschi, con gli indumenti a strisce giallo-blu e la stella di
Davide sulla parte anteriore della giacca.
Sguardo rivolto verso il basso e sempre zitti.
FINE INVERNO 1944
Verso la fine dell’inverno del 1944, al mattino nei giorni di domenica ci fecero fare nei
campi l’operazione di kartoffel-spritzen, cioè spruzzavamo antiparassitari sulle piante di
patate.
A volte ci andava bene, perché trovavamo le carote e con una pulitina superficiale le
mangiavamo con avidità, cercando sempre di farlo di nascosto, perché ci era stato
proibito di raccoglierle.
In quel periodo, gli unici pacchi che io ho ricevuto, e non sempre integri, furono quelli
che con
grande sacrificio, mi mandarono i miei genitori.
Ricordo con ammirazione e simpatia quei ragazzi che evasero, sempre in coppia, e che di
loro non ho saputo più nulla. Mal nutriti, senza mezzi e malvestiti, in un paese ostile;
avevano poche possibilità di raggiungere la libertà anche se ci trovavamo vicini alla
Svizzera.
Un giorno, durante la nostra permanenza nel lager che ci ospitava, dopo, chiamiamolo il
pasto, mi passò per la mente di scrivere su di un pezzo di cartone con caratteri gotici, e
senza dirlo a nessuno dei miei compagni di prigionia, “das fur uns ist eine schweinerei”
(questo per noi è una porcheria) che poi misi all’interno della marmitta con il coperchio.
Le marmitte vennero da noi riportate in fabbrica.
Alla sera, al ritorno dalla fabbrica, il sergente ci radunò nel cortile del lager e disse che
se l’autore dello scritto sul cartone non si fosse presentato, saremmo rimasti lì in piedi
tutta la notte.
A quel punto decisi di uscire dalle file e dichiararmi di essere l’autore dello scritto.
Il feldwebel mandò tutti nei cameroni, tranne me. Il sergente sapeva che l’unico di noi
prigionieri che conoscesse qualcosa della lingua e grammatica tedesca ero io, dato che in
varie occasioni avevamo parlato di vari argomenti.
Mi chiese se ero cosciente di quello che avevo fatto. Risposi che erano molti mesi che
mangiavamo le stesse cose tutti i giorni e che molti di noi soffrivano sopratutto per
carenza di vitamine – io, ad esempio, ero stato ricoverato in un ospedale per prigionieri
di guerra a Strasburgo perché sulle natiche e sulle cosce avevo avuto una foruncolosi per
un deficit del sistema immunitario.
Aggiunsi, che altri miei compagni avevano sofferto la stessa affezione ed erano stati
ricoverati all’ospedale.
Mi disse di fare attenzione a quello che facevo e tutto finì li.
PASQUA 1944
Del tempo trascorso nel lager, ricordo il giorno di Pasqua del 1944, quando al mattino si
presentò un cappellano militare francese, anche lui prigioniero, per officiare la S. Messa.
Disse poche parole e chiese a chi di noi voleva fare la Comunione, dopo di che, disse la
S. Messa e se ne andò.
Mi sovvenne allora, il sermone di alto profilo patriottico che il cappellano militare italiano
fece a noi, durante la S. Messa di Pasqua, sempre a Tolone nel 1943, e il comportamento
del cappellano militare francese ben diverso, cosa che mi fece pensare per non poco
tempo su quanto era accaduto in due momenti particolari della nostra vita e sulle qualità
necessarie per poter adempiere ad un determinato compito come esseri umani in una
società che pratica la stessa fede.
FINE SETTEMBRE 1944.
E così proseguimmo fino a settembre dell’anno 1944, quando a seguito di un accordo tra
Hitler e Mussolini, noi italiani con targa IMI, ossia militari italiani internati, diventammo
lavoratori stranieri coatti, al lavoro come tanti altri di varie nazioni che vennero travolti
dall’apocalisse della seconda guerra mondiale.
Vicino al lager dove ci avevano sistemato, c’era un vecchio che ogni volta che noi
passavamo per andare in fabbrica o per tornare al lager, usciva dal suo negozio di
cappellaio e gridava “Badog-lio verrater, italiener verrater” (Badoglio traditore, italiani
traditori).
In realtà, quel signore tedesco non aveva tutti i torti per ingiuriarci in quel modo.
Neanche noi, in quelle ore, sapevamo a quale immane disastro andavamo incontro a
causa di scelte politiche sbagliate da parte di chi aveva governato le sorti del nostro
paese fino ad allora.
Con il precipitare degli eventi, coloro che a modo loro governavano frettolosamente
l’Italia del dopo 25 luglio, commisero tanti errori che diedero luogo ad ulteriori ingenti
perdite di vite umane, di beni e di prestigio per la nazione intera.
Basti pensare ai vari fronti dove si trovavano le forze armate italiane.
Semplicemente abbandonati.
Per l’Italia fu una tragedia di smisurate proporzioni e a livello di governo della nazione
una vergogna per tutti noi.
L’ultimo giorno che facemmo quel percorso, il cappellaio come al solito uscì dal negozio e
un veneto di nome Gino Boato del nostro gruppo, gli calzo il cappello fino alle orecchie e
gli diede due ceffoni, il tutto accompagnato da una espressione dialettale veneta.
Con il passaggio dalle condizioni di prigionieri di guerra a quella di lavoratori stranieri,
causò la fine del lager e della vigilanza militare e il trasferimento da parte nostra in uno
stanzone dove erano state preparate le solite strutture in legno con i sacchi ripieni di
paglia.
L’indirizzo di questa nuova destinazione era: Bismarkstrasse, 7 Emmendingen im Baden-
Wurttemberg Deutschland
In quei mesi, iniziarono in quella zona gli attacchi aerei, quasi tutti i giorni, alle strade, ai
convogli ferroviari e ai centri abitati con mitragliamenti a bassa quota e bombardamenti.
Da molto tempo avevamo bisogno di un cambio dei nostri unici indumenti militari che
erano stati usati per vestirci ogni giorno durante gli anni.
Lascio a voi immaginare, dopo il tempo trascorso, in quali condizioni si trovassero allora
quegli indumenti militari, sporchi e consumati con una scritta bianca, IMI, sul retro.
Si può dire che la nostra dignità aveva toccato il fondo.
Fortunatamente, ricevetti un pacco da casa mia, contenente tra l’altro biancheria di cui
avevo assolutamente bisogno. E sostituimmo anche gli zoccoli di legno con le relative
pezze da piedi. Che triste esperienza.
Dopo essere diventati lavoratori stranieri, siccome la fame continuava ad essere tanta, e
sapendo che i contadini del luogo conservavano le patate interrate in appositi giacigli di
paglia, decidemmo di andare alla ricerca di questi tuberi.
Dove vedevamo un mucchio di terra, andavamo sicuri che lì avremmo trovato le patate.
Questo prelievo lo facevamo di notte e siccome la quantità era modesta, credo che
nessuno se ne accorgesse.
Dopo qualche mese, ci fecero andare in un altro alloggio, uno stanzone grande che noi
chiamammo camerone; anche li trovammo le solite strutture di legno a due piani con i
materassi ripieni di paglia, dove rimanemmo fino alla partenza per l’Italia.
INVERNO 1944/1945
In quei giorni, i fluge-alarm (allarme aereo) si susseguivano uno dopo l’altro in modo che
noi
stavamo sempre in giro, praticamente non si lavorava più.
Fu così che noi avemmo, nella sorte avversa di prigionieri, la fortuna di procurarci molta
carne di cavallo e ciò perché le truppe tedesche, non disponendo di combustibile a
sufficienza, facevano trainare da coppie di cavalli i mezzi militari creando cosi convogli
lunghi e lenti.
Gli aerei alleati ebbero così maggiori possibilità di bloccare le strade, colpendo, tra l’altro,
quei poveri animali le cui carcasse rimanevano lì fino allo sgombero della strada.
Mi passò allora per la testa, che fare con tanta grazia di Dio ? Noi ci trovavamo a poca
distanza
da quel luogo e avevamo tanta fame. E li c’era tanta carne di cavallo.
In piena notte, decisi di fare con un profilato d’acciaio, nella forgia della fabbrica, una
specie di scimitarra con la quale spezzando le costole del povero animale morto,
potevamo prendere la parte migliore e cioè il filetto.
Data la grande richiesta di carne di cavallo da parte di altre persone che facevano parte
del gruppo, utilizzammo anche parti dell’animale non di prima scelta.
Bisogna tener presente che la temperatura in quel periodo, durante il giorno e la notte
era sotto lo zero o intorno lo zero. Quindi, la carne era, quasi sempre, congelata.
Gli approvvigionamenti di carne, li facevamo nei momenti in cui non c’erano movimenti
di militari o bombardamenti e per ovvie ragioni quasi sempre durante la notte.
E ci andò bene.
Nessuno di noi pensò allora di fare lo schizzinoso, di richiedere la presenza di un
veterinario prima di procedere alla cottura di quella carne. Anche cruda sarebbe andata
bene lo stesso.
Creammo, li per li, una specie di bistecchiera e al fuoco il grasso giallognolo della carne
faceva sì che fosse ottima.
Dopo un tempo che ci sembrava infinito, finalmente mangiavamo ottima carne di cavallo
e a sazietà.
I civili tedeschi, che lavoravano con noi nella fabbrica, ci dicevano “das ist nicht” cioè
non è buona, ma finirono per insaccarla, in attesa di tempi migliori.
Questa situazione, durò in quella zona, fino al 25 aprile 1945 e cioè fino all’arrivo delle
truppe alleate.
Nel frattempo, con noi erano stati aggiunti nel camerone una ventina di giovani, quasi
tutti
studenti, ragazzi e ragazze, cechi, che a seguito dell’annessione della Boemia da parte
della Germania, come protettorato, erano stati portati in modo coatto ad Emmendingen
perché non erano d’accordo su quanto era stato deciso nei loro confronti.
Ricordo che non avevano l’obbligo di lavorare e come documento personale avevano il
passaporto tedesco.
Ottimi ragazzi, grandi compagnoni e molto generosi quando arrivavano i pacchi da casa
con generi alimentari.
Si può dire, che in quel camerone c’era tanta fratellanza e quasi tutti noi avevamo poco
più di venti anni e non vedevamo l’ora di poter tornare a casa finalmente liberi.
RICORDI E FRAMMENTI
Un giorno, febbraio del 1945, andando per strada assieme ad un italiano che si trovava
in Germania da parecchio tempo, Venero Scardilli di Catania, un signore sentendoci
parlare in italiano, ci fermò e ci chiese in italiano se potevamo aiutarlo a portare la legna
per il riscaldamento nella cantina di casa sua.
Alla fine del lavoro ci invitò a casa sua per offrirci qualcosa da bere e da mangiare.
Ci presentò sua moglie e la figlia, in una casa che ai miei occhi, dopo le tribolazioni
subite, mi sembrava una reggia.
Ebbi così modo di conoscere un vero signore. Adolfo Camorani, romagnolo, non più
giovane; era il classico self made man.
La signora era tedesca, persona dolce e simpaticissima.
La figlia carina e un po’ acerba, poteva avere dodici o tredici anni.
Possedeva la casa dove abitava alla Kirchstrasse numero 2 e aveva al piano terra un
negozio di elettrodomestici e all’interno un laboratorio-officina dove riparava le
apparecchiature guaste.
Ricorderò sempre il primo giorno che andai a lavorare con lui, quando mi assunse come
hilf arbeiter, cioè suo aiutante, mi disse che nel lavoro bisogna essere ordinati e precisi e
ad ogni tipo di vite ci doveva essere il suo corrispondente giravite. Con queste parole mi
comunicò il suo modo di essere e di operare. Sante parole.
Avevo conosciuto un grande uomo, molto intelligente e capace di intraprèndere una
attività impegnativa, un vero sef made man.
In quel periodo, ebbi modo di osservare a Camorani quando partecipava, vestito da
pompiere come ausiliario, alle esercitazioni del servizio antincendio.
Come lui, c’erano altri cittadini che partecipavano a queste pratiche curate con molta
professionalità dai pompieri del luogo; questi ausiliari erano tutte persone anziane.
Durante questi mesi, nonostante i bombardamenti fossero frequenti in quella zona, data
la prossimità del campo di battaglia, gli interventi dei pompieri del luogo non furono
molti.
Nella mia nuova attività con Camorani, ebbi, con piacere, modo di conoscere molte
persone di varia condizione sociale e mi trovai a mio agio.
Ricordo che a causa delle restrizioni imposte dalla guerra e dalla scarsità dei ricambi, la
moneta corrente non veniva usata e al suo posto si barattava; ad esempio un tubo
elettronico, allora chiamata valvola radio, si scambiava per cinque uova ed era un
mercato prospero, ed io partecipavo insieme a Camorani che in un certo modo forniva la
materia prima.
Rammento che Emmendingen si trova in una zona agricola fertile, lungo un tratto del
corso del fiume Reno e alle falde dello Schwarzwald, la famosa Selva Nera, una regione
bellissima con una selva che alterna a macchia, zone fitte di alberi con ampi spazi di un
colore verde pastello.
Ho pensato più volte a quella bella e benestante cittadina, dove ho trascorso nel lager
periodi molto tristi come prigioniero di guerra, ai pericoli corsi durante le incursioni aeree
con mitragliamenti e bombardamenti, alla fame, al freddo, e a tutte le restrizioni che ci
vennero imposte come prigionieri di guerra prima e come auslander (straniero) civile,
poi.
Allora, durante la nostra permanenza nel lager, per approvvigionarci di lamette per
barba e una sorta di sapone per lavarci, il wachman provvedeva all’acquisto utilizzando
dei biglietti, una specie di moneta per prigionieri di guerra, che la fabbrica dove
lavoravamo, ci riconosceva per le nostre prestazioni.
Sentivamo molto la mancanza di biancheria, di vestiario, di scarpe e di tante altre cose
ancora.
Con profondo dolore, ricordai i tanti “los” e “raus” gridati dai soldati tedeschi in ogni
occasione con voce alta e gutturale e il fucile puntato verso di noi per impaurirci e
trasformarci in tanti cani bastonati e ciò successe con frequenza, dall’ inizio della
prigionia fino ad Emmendingen durante il percorso da Strasburgo.
Durante l’anno in cui fummo presenti come prigionieri in Emmendingen, tanto nel lager
come in fabbrica, i rapporti con i nostri guardiani furono apparentemente regolari perché
eravamo consci di essere prigionieri di guerra e difficilmente potevamo prendere qualche
iniziativa.
“ C’est la guerre “, direbbero i francesi, ma vuole il caso che io, la guerra, la detesti
profondamente. E’ tutta follia dell’uomo e dei suoi sporchi interessi.
Con il passaggio alla condizione di lavoratori stranieri, la nostra vita migliorò per diversi
aspetti, non ultimo la libertà di movimento entro un raggio di pochi chilometri.
Ciò che vorrei sapere, con l’aiuto dei miei compagni di prigionia, se tra noi e la WEHRLE
WERK ci fosse un documento scritto, dove figurasse il nostro rapporto di lavoro e il
trattamento economico.
Assieme ad altri documenti di quel periodo, conservo la Kontrollkarte fur den
auslandsbriefverkehr o meglio come precisato più oltre lagerkarte, rilasciata dalla Wehrle
Werk A.G., la fabbrica dove lavoravamo e ci venne data nel settembre del 1944.
Non ricordo a cosa servisse, probabilmente era stata data per la distribuzione di generi
alimentari.
Ricordo le ore liete, trascorse lungo le rive di un corso d’acqua vicino ad Emmendingen
insieme a della bella gioventù dove andavamo a fare il bagno.
Ovviamente non mancavano le ragazze tedesche, e insieme si stava bene.
Una di esse, una bellissima bionda, simpaticissima, era figlia di un “Hauptmann”
(capitano) delle SS. Triste fama.
Secondo una nostra vecchia locuzione, “le colpe dei padri le scontano i figli”.
Vorrei sapere perché i figli dovrebbero espiare le colpe dei padri.
Non ho ancora trovato una valida spiegazione, quindi è solo un modo di dire.
Mi auguro che quella ragazza non abbia sofferto per le eventuali colpe del genitore a
causa della sua appartenenza alle SS.
In quella occasione, io le riparai il suo radio ricevitore che aveva una valvola guasta e
gliela sostituì senza alcun baratto come facevo in altre occasioni.
Semplicemente, quella ragazza mi piaceva e tanto.
Allora, mi disse che sua madre era morta da parecchi anni e che non aveva da tempo
notizie del padre e non sapeva dove fosse.
Fino ad allora, usavo il camerone solamente per dormire e durante il giorno, stavo con
Camorani o insieme ad amici tedeschi del luogo.
Ricordo con simpatia, l’interesse che queste persone avevano per farmi conoscere i
familiari, portandomi a casa loro discorrendo sui tanti problemi che c’erano in quei giorni.
FINE INVERNO 1945
Verso la fine dell’ inverno del 1945 con il precipitare degli eventi bellici, venivano
chiamati alle armi uomini anziani e ragazzi minorenni.
In queste occasioni, i familiari dei miei amici, mi invitavano a partecipare in modo
discreto a queste tristi riunioni di famiglia, quando uno di loro veniva spedito su uno dei
fronti di guerra dove tutto l’esercito germanico era in ritirata o allo sfascio.
Si può immaginare quale futuro era riservato a quella povera gente.
In quel periodo, circolavano in ogni dove della Germania, i così detti lupi mannari, (la
dizione tedesca esatta non me la ricordo, ma aveva a che fare con il wolf), cioè soldati
della SS vestiti in borghese che andavano alla ricerca dei renitenti alla chiamata alle
armi.
La gente era visibilmente preoccupata e impaurita.
In prossimità del centro abitato, dove noi avevamo il camerone, c’era una piscina,
costruita a regola d’arte per le gare di nuoto e l’ingresso era libero e gli impianti erano
tutti in funzione.
Dopo tanto tempo di astinenza, ne approfittammo divertendoci come non mai, e ciò durò
per parecchio tempo. Sembrava che la facessero funzionare per noi.
D’altra parte, oltre a noi maschietti, c’erano anche parecchie ragazze con le loro
necessità.
Credo che, per evitare problemi dovuti alla mancanza nel nostro camerone di servizi
sufficienti, fruivamo di un impianto destinato normalmente alla attività natatoria.
Con l’arrivo previsto delle truppe alleate, Camorani mi chiese se ero disponibile a
trascorrere insieme a loro la notte seguente in una villetta che lui possedeva fuori di
Emmendingen, al che io acconsentii.
E non poteva essere diversamente, per me era il mio benefattore. A lui, dovevo tanta
gratitudine.
25 APRILE 1945.
In quelle ore, tutto era relativamente calmo e la notte trascorse senza novità.
Al mattino del giorno seguente, cioè il giorno 25 aprile del 1945, arrivarono le forze
alleate, francesi e americane.
Ricordo molto bene che il fronte di battaglia passò senza che noi ci rendessimo conto e i
soldati tedeschi non opposero alcuna resistenza.
Semplicemente si ritirarono.
Quel mattino, assistetti ad uno spettacolo che non avevo mai visto prima.
A bassa quota, ed in ordine sparso, arrancavano diversi bombardieri, le cosiddette
fortezze volanti, che si trovavano in difficoltà perché erano stati colpiti alcuni dei loro
motori durante la loro missione sulla Germania.
Infatti, erano lenti e perdevano sempre più quota e credo che non andarono molto
lontano.
Ebbe allora inizio, da parte di noi italiani, una forte protesta nei confronti del comando
militare francese, perché non ci riconoscevano il nostro stato di ex prigionieri di guerra,
ne quello di deportati.
Alla fine, tutto si risolse nel modo corretto ed avemmo anche noi lo stesso trattamento
degli ex prigionieri di guerra di altre nazionalità e ciò comportava sotto ogni aspetto
poter fruire di molte cose e in particolare di ottimi alimenti.
Ritengo doveroso ricordare con simpatia, Herr Dietrich, uomo anziano, caratterizzato da
un gozzo abbastanza vistoso, uomo retto e buono con tutti.
Era una brava persona ed era stato il nostro capo officina elettricisti dove provvedevamo
alla manutenzione degli impianti elettrici.
Assieme a lui, tutta la famiglia pianse la morte del figlio sul fronte Russo.
Durante la nostra permanenza in fabbrica, fungeva da direttore dei lavori e del personale
che ivi lavorava, un uomo arrogante, spregevole e repulsivo.
Con l’arrivo delle forze alleate scomparve.
Spero che la giustizia abbia dato a lui ciò che si meritava.
La fabbrica, dove noi abbiamo lavorato, era la WEHRLE WERK A.G..
Esiste tutt’ora e fabbrica sempre, un pò di tutto. La conferma, l’ho avuta da Internet.
Con Camorani uscivo in moto sul sedile posteriore e a volte portando parti di ricambio
per radio ricevitori od altro materiale elettrico.
In una occasione, l’acquirente un anziano di vecchie tradizioni, che abitava su di un
cucuzzolo dello Schwarzwald, per suggellare l’acquisto ci offrì una grappa bevendo per
primo un po’ da
ciascuno dei nostri bicchieri.
Chiesi al mio compagno di viaggio cosa significasse quel rito e mi spiegò che voleva
dimostrare la sua soddisfazione per la compera fatta e che la grappa non ci avrebbe fatto
male perché era genuina.
Nel mese di maggio del 1945, in modo spontaneo, si formò un gruppo di sfaccendati
costituito da De Vecchi, Tournour, da chi scrive e da un ragazzo, di cui non ricordo il
nome, figlio di un italiano residente in Francia e facente parte della Armèe Francaise che
allora amministrava una parte della Germania meridionale.
Un bel giorno, decidemmo di andare a pescare il pesce fresco in un torrente li vicino, con
l’intenzione di cambiare il nostro menù, però non avevamo gli attrezzi per pescare.
In quella occasione optammo per le bombe a mano fornite dalla Armèe.
Con rammarico, ricordo che chi cucinò il pesce non conosceva l’arte del buon cucinare e
tutto finì con nostro vivo disappunto.
FINE LUGLIO 1945
Alla fine di luglio ci comunicarono che dovevamo partire per Freiburg im Breisgau per poi
proseguire per l’Italia.
Alla mia partenza per l’ Italia, prima di salutarci, Camorani mi pregò di chiedere notizie
della sua famiglia al sindaco di un paesino della Romagna dove risiedevano i suoi
parenti.
Cosa che io feci appena arrivai a Trieste.
In quella occasione, mi congedai da lui e dalla sua famiglia e ringraziai per tutto ciò che
avevano fatto per me in quel periodo così tribolato della mia esistenza.
Al mio rientro a Trieste, scrissi al sindaco del paese che mi aveva indicato Camorani, ma
purtroppo l’esito fu negativo e glielo comunicai immediatamente.
Conservo ancora alcuni nomi di compagni di prigionia e non, che al momento di
congedarci nel lontano mese di luglio del 1945, mi diedero oltre il nome anche l’indirizzo
che allora trascrissi in fretta con una matita sulle pagine bianche del mio vorlaufiger
fremdenpass (permesso provvisorio per stranieri) che conservo con i miei documenti di
allora.
C’erano ancora molti altri, però nella fretta del commiato non mi è stato possibile farlo.
Mi auguro che siano ancora tutti vivi e in salute, così almeno lo spero.
Tournour Viron Adolfo Montalto Torinese Torino
Castagnini Emanuele Sori per Casano Genova
Intuante Adolfo Palma Monte Chiaro
Benassi Carlo Via Guasti Cecilia 19 Parma
Rongra Giovanni Corso Isonzo 49 Ferrara
Siri Franca Piazza Emanuele Filiberto 2 Asti
Guelfi Agostino Via Giuseppe Sirtori 13 Milano
Boato Gino Via Varotara 20 Mirano Venezia
Scalpellini Piero Via Machignano 2 Bagnano Alpi Apuane
Veltroni Giuliano Via Borgognisanti 108 Firenze
Fabiani Armando Via Borgognisanti, 41 Firenze
Biagini Vasco Via Giovanni d’Amico 50 Genova
Brambilla Giuseppe Via Ludovico il Moro 185 Milano
Bianoli Danilo Via Rosmini 5 Milano
Bellone Paolo Via S. Sebastiano 2 Limone Cuneo
Scardilli Venero Via Stazzone 113 Catania
FINE LUGLIO 1945 – PARTENZA PER L’ ITALIA
A Friburgo, dopo alcuni giorni, partimmo con automezzi militari americani alla volta di
Bregenz
e da li, in un convoglio ferroviario, attraversammo la Svizzera fino a Ponte Chiasso.
Quando arrivammo alla stazione centrale di Milano, trovammo sulle pensiline, in attesa
dei loro cari, molte persone che ci chiedevano da dove venivamo ed i particolari della
nostra prigionia.
Purtroppo, non era cosa facile da raccontare la nostra vita da prigionieri e molti di loro
rimanevano perplessi circa la veridicità di quanto stavamo dicendo.
Fu così, che io non risposi più alle domande che mi venivano rivolte.
Da Milano ci portarono a Brescia dove, ci dissero, che saremmo stati avviati verso le
nostre zone di residenza.
Visto che nessuno del centro di smistamento si faceva vivo, molti di noi decisero di
proseguire per conto proprio e così feci io; ricordo che non avevo una lira in tasca.
Per arrivare a Mestre viaggiai con vari mezzi.
A Mestre trovai solo rovine, era stato distrutto tutto, della città di Mestre non rimaneva
nulla.
Pensai allora, quando nel marzo del 1943 aspettai per alcune ore alla Stazione di Mestre
il treno che doveva portarmi in licenza a Trieste, tutto era calmo e tranquillo ed i
bombardamenti erano ancora lontani.
Da lontano, giungeva a noi, un motivo caratteristico suonato da una orchestrina inglese
che nel silenzio della notte ci riportava alla dura realtà. Intorno a noi, c’erano solo
macerie e desolazione.
Dopo varie ore di attesa, riuscì per fortuna a sistemarmi su di una autocisterna di
benzina fino ad Udine.
Allora, lungo le strade che avevo percorso, quasi tutti i ponti erano stati distrutti dai
bombardamenti e quindi si transitava su ponti che erano stati realizzati provvisoriamente
con strutture metalliche militari e il traffico si svolgeva in senso alternato, dando luogo a
lunghi incolonnamenti.
A Udine presi un autobus di linea che mi portò a Gorizia.
Nella stazione ferroviaria incontrai, per puro caso, un signore di nome Leonardi Gaetano
che
faceva di mestiere il ferroviere e abitava a Trieste sullo stesso pianerottolo di casa mia.
Grandi feste e assicurazioni che i miei stavano bene.
RITORNO A CASA 4 AGOSTO 1945
Nelle prime ore del pomeriggio, part’ con il treno per Trieste.
Al mio arrivo a Trieste, presi il tram ed arrivai a casa mia accolto dal mio amato nonno e
dalla mia Stellina (il mio cane) che sembrava impazzita per il mio ritorno.
Poco dopo, giunsero mamma e papà che erano andati alla stazione ferroviaria nella
speranza di poterci incontrare e riabbracciare dopo tanto tempo.
A lungo ci furono abbracci e baci.
In quel momento, mio fratello non era in casa e quindi ci abbracciammo con grande
commozione al suo rientro.
Durante la cena, ciascuno di noi aveva tante cose da dire e commentare e i ricordi si
accavallavano.
Finalmente, dopo tante tribolazioni, eravamo un’altra volta insieme.
A casa, arrivai verso il tardo pomeriggio del 4 agosto 1945.
COMMIATO
Questo è “ il mio racconto “.
Tutto ciò che ho scritto è vero e corrisponde a fatti che rivivono nella mente e che io ho
vissuto in prima persona.
Certamente, ho tralasciato qualcosa e me ne dispiace.
Non dimentichiamo, che da allora, dal lontano settembre del 1943, sono passati 65 anni.
Una vita.
Questo mio racconto, l’ho scritto quasi di getto, in tempi brevi, scrivendo sul portatile il
cui word processor non è dotato di certe funzioni che mi avrebbero permesso di scrivere
alcuni vocaboli, appartenenti alla grammatica tedesca, in modo corretto con le dieresi
corrispondenti.
Devo essere infinitamente grato a mio figlio Giorgio che è stato il vero propulsore di
questa iniziativa, a mia nuora Loredana Pietri che mi ha spronato ed è stata sempre
entusiasta di quanto stavamo facendo e a tanti amici come Tenaglia Carlo, Pappalardo
Elena, Riscioli Federico e tanti altri dei quali non mi ricordo il nome.
Grazie a tutti voi per avere avuto la pazienza di leggere “il mio racconto”.
Spero di non avervi annoiato.
Per me è stata una rimpatriata e confesso che non mi è dispiaciuto farlo, anzi mi ritengo
un privilegiato.
Il mio pensiero va verso tutti i miei compagni di prigionia, anche quelli di altri lager, e
alle vicissitudini che abbiamo vissuto insieme in quei tragici giorni della nostra vita.
Di tutti quelli di cui ho trascritto più sopra il loro nome, fino ad ora, sono riuscito ad
avere contatti scritti e telefonici con Tournour Viron Adolfo. Abita Saluggia Vicenza.
Spero di poter contattare altri miei compagni in futuro.
Lo spero tanto.
Ciò che capitò a noi allora, a distanza di tanti anni, non è servito ne di lezione, ne di
monito
alle future generazioni e ciò mi avvilisce molto.
Sono sempre stato restio a parlare, a dire della guerra, ma ciò che successe
sessantacinque anni fa, non può essere lasciato nel dimenticatoio.
Purtroppo, resta da fare gli italiani. Come? Quando? Ardua impresa.
Con la realizzazione dell’Unione Europea, pensavo che per il principio dei vasi
comunicanti, ci fosse un travaso di sani princìpi tra le varie nazioni europee, ma ancora
non è così, speriamo bene.
Da Tessera di Riconoscimento
Regia Marina
Scuole C.R.E.M. S.Bartolomeo
La Spezia
Bertuzzi Giovanni
Matr. 81011
(Cl. 1922) appartiene a questo Comando
La Spezia, 29/6/42 XX°
Bertuzzi Giovanni
Roma, 29 aprile 2008
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Magazine Racconti
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