Sono stati giorni molto ricchi di spunti e di riflessioni e poiché, come sapete, ho l'abitudine di scrivere solo se e quando ne sento il bisogno, avendone adesso una impellente necessità (anche far tacere i vari campanelli che trillano in testa), raccomando ai pazienti lettori di armarsi di un'ulteriore buona predisposizione d'animo, in quanto il post è lungo e si conclude con una serie di appunti e segnalazioni.
Il miracolo parte dai ragionamenti sul rapporto tra tecnologie e didattica/appendimento che iniziano a travalicare i confini dei tecnici e dei ricercatori, attirando l'attenzione dei media in generale, anche se con deviazioni un pò grossolane e semplicistiche. Ma va bene così. L'importante è aumentare il volume della discussione. Gli strumenti cambiano e si evolvono rapidamente. E' ancora aperto il dibattito sul social web in generale e, da poco tempo, sugli smartphone, che un altro device si profila all'orizzonte: i tablet. Un'interessante panoramica / riflessione è offerta da una video-intervista di Mario Riotta. Il ricercatore sostiene, a ragione, che il rischio è di utilizzare questi dispositivi in maniera anche molto tradizionale (classici tool per la visualizzazione di contenuti strutturati e statici). In tal caso, non serve investire tante risorse da parte delle istituzioni educative e formative (la spesa è comunque rilevante anche se si vuole far lavorare due utenti per tablet), allora tanto vale non utilizzarli. Se, invece, si vuole produrre un impatto metodologico significativo, bisogna introdurre questi dispositivi (riflessione che, ovviamente, si estende a tutti, e cioè i PC, i notebook, le LIM, gli smartphone, le applicazioni del social web, ecc.) in maniera contestuale per generare cambiamenti nel modo di fare scuola/formazione, nell'organizzazione della scuola/formazione stessa e della didattica in generale, nel modo in cui lo studente studia, nel modo in cui l'insegnante insegna e nei modi in cui studente e insegnante interagiscono tra loro. In linea potenziale, questi cambiamenti potrebbero, poi, produrre un impatto epistemologico, portando a forme di apprendimento (che Riotta definisce, utilizzando un'espressione molto azzeccata, "cloud learning") basate su mobilità, integrazione, sincronizzazione tra risorse e utenti. Ciò potrebbe (si spera) mettere in crisi il sistema consolidato attualmente in vigore nell'istruzione e nella formazione, per impostare una nuova metodologia a tutto tondo. Numerose sono le ricerche (compresa quella di Riotta in una scuola di Bergamo) che mirano a verificare se l'utilizzo contestuale di tali dispositivi e applicazioni possa comportare un impatto cognitivo significativo, permettendo l'acquisizione di competenze di livello qualitativo migliore rispetto alla "didattica tradizionale". E' certo che il dispositivo in sé non agevola una buona didattica. Sono altri gli elementi ad apportare benefici nelle modalità in cui dispositivi, persone e contesto (la quotidianità di fare scuola) entrano in relazione tra loro. L'obiettivo più cogente, comunque, è introdurre e diffondere un nuovo modo di apprendere: superare i concetti di scuola e formazione collocate in un tempo e in uno spazio rigorosi e delimitati ed entrare in un'ottica di mobilità e di permenenza in rete per tutto l'arco della vita (una formazione continua senza pareti).
E qui veniamo a un aspetto che mi sta molto a cuore e cioè il superamento dell'annosa dicotomia tra "nativi digitali" e "immigrati digitali". Un primo passo è quello di accettare, come esposto da Gianni Marconato in un suo post, l'esistenza di una decima intelligenza, ulteriore rispetto alle nove individuate da Gardner, caratterizzata da una serie di abilità differenti, tra cui gestire le opzioni di scelta (su Internet o verso una qualunque navigazione di tipo ipertestuale), applicare il multitasking, selezionare e connettere logicamente le informazioni per creare nuova conoscenza, ecc. Da qui, il passaggio al concetto di "digital wisdom", introdotto dallo stesso Prensky per annullare il gap generazionale, è immediato. La saggezza digitale è quell'insieme di competenze che permette a un utente, giovane o anziano, di usare le tecnologie in modo consapevole, presupponendo una serie di abilità che, è bene tenerlo presente, non sono immediate, nella loro "attuazione consapevole", da parte dei "nativi digitali": navigare all'interno dei network, condividere conoscenza in un ampio sistema di intelligenza collettiva, negoziare concetti e la propria presenza in rete, gestire nuovi modi e ritmi di comunicazione, gestire i maggiori livelli di autonomia (soprattutto nello studio e nell'apprendimento), gestire le informazioni, discernendo le fonti.
A tal proposito, i risultati di uno studio condotto da alcuni ricercatori della NorthWestern University di Chicago (“Trust online: young adults’ evaluation of Web Content”) che ha interessato circa un migliaio di giovani americani tra i 18 e i 20 anni, hanno messo in evidenza alcune tendenze da non sottovalutare nel rapporto tra conoscenza, Internet e "nativi digitali": la rete è lo strumento maggiormente utilizzato per le ricerche; l’attendibilità di quanto trovato e delle fonti non è una questione avvertita come necessaria; i motori di ricerca sono visti come dispensatori di verità assolute e indiscutibili; scarsa conoscenza dei principi regolatori degli algoritmi di ricerca; affidamento immediato sul primo risultato, in ordine di apparizione, sulla pagina del motore di ricerca utilizzato; scarsa capacità di discernere tra pubblicità e link in primo piano; indifferenza verso gli autori dei materiali reperiti online; maglie larghe nei confronti del “cut and paste” selvaggio, effettuato con disinvoltura. Ragion per cui, facendo ammenda anche io stesso, non voglio più sentire parlare né di "nativi digitali", né di "immigrati digitali", essendo queste due categorie che non esistono, o meglio, esistono e si fondono senza possedere quei contorni definiti e rigidi spesso categorizzati.
Sempre Marconato, nel suo post, auspica che si possa "avvicinare in età precoce i bambini all’uso del computer in modo che, in analogia con quanto avviene con l’apprendimento precoce delle lingue, si sviluppi al meglio anche questa forma di interazione con la realtà". A questo proposito, in Italia c'è un'ulteriore questione. In un recente articolo apparso sul quotidiano la Repubblica, "Il mondo degli iperpoliglotti" (edizione di giovedì 23/02/2012), si fa riferimento al ritardo del nostro paese sul multilinguismo, ma anche sul "monolinguismo" (in questo caso dell'inglese) aggiungo io, e ai livelli bassi di conoscenza di una o più lingue straniere da parte dei cittadini, nonostante gli innumerevoli documenti programmatici sul tema da parte dell'Ue, a partire dal Barcellona 2002, in cui si auspica, per ogni cittadino dell'Unione, la conoscenza di almeno due lingue straniere, oltre a quella materna. Il multilinguismo sembra essere una necessità oramai imprescindibile, ma la sensibilità, in Italia, è abbastanza annacquata (basti vedere i numerosi tagli di ore, cattedre e quant'altro effettuati in questi anni a livello governativo). Eppure, il nostro cervello è naturalmente predisposto, almeno fino all'età puberale, all'acquisizione contemporanea di più idiomi (addirittura, secondo alcuni studi, fino a 10/11). Inoltre, concetti come "società della conoscenza", competenze dei "nativi digitali", "dieta mediale", ecc., sono intimamente legati all'importanza della conoscenza di più lingue visto che le opportunità digitali a disposizione si incrementano in maniera esponenziale e le possibilità di entrare in contatto con altre culture sono praticamente dietro ogni angolo. Il rapporto tra tecnologie e didattica delle lingue, quindi, è molto stretto, ma anche molto poco studiato soprattutto in termini di impostazione didattica, approccio e metodologica diversi.
Ripensare a questi aspetti, "saggezza digitale" e "multilinguismo", in modo integrato come impostazione nuova di fare scuola e formazione è un must che deve realizzarsi in fretta. Fare una ricerca su "Google" sul romanzo "Oliver Twist" di Dickens, per esempio, implica avere a che fare con quasi 10 milioni di risultati. Orientarsi in questo oceano di informazioni impone la padronanza di tutte quelle competenze "digitali" citate prima, oltre a quelle di natura più prettamente linguistica. E non basta copiare il primo record (che guarda caso è quello di Wikipedia). Se i nostri ragazzi riuscissero ad andare almeno fino alla pagina 5, leggendo e confrontando, o ad affinare la ricerca con l'inserimento consapevole di adeguate parole chiave, avremmo raggiunto già un buon risultato.
Un’ultima considerazione riguarda l’ipotesi di una radicale riorganizzazione spaziale dell’aula di lingua straniera per ottenere un ambiente formativo integrato, arricchito digitalmente (questo, ovviamente, può applicarsi a tutte le tipologie di aula). Secondo Cyprien Lomas e Diana G. Oblinger, un learning space adeguato alle caratteristiche degli studenti del XXI secolo può essere definito: “digital, mobile, independent, participatory, social, flexible, ubiquitously, accessibile”. La classe, quindi, va ripensata in quanto ponte tra l’apprendimento formale e quello informale, che avviene al di fuori delle mura scolastiche. Un esempio di geometria è presente nell’articolo di Carlos Melero, Lingue straniere e tablets, (numero 8-9 del 2011 della Rivista "Scuola e Lingue Moderne - SeLM", p. 46-51). Partendo dalle sue riflessioni, io mi spingerei oltre, immaginando un "ambiente di apprendimento" (nell'accezione descritta dal Wilson nel 1996) a “geometria variabile” (come suggerisce Ferri in molti suoi scritti) con banchi mobili e ricombinabili disposti a isole di 4/5 unità (con PC o tablet o notebook), dotate di web-cam e collegate a Internet, senza tralasciare di garantire la possibilità di effettuare diverse attività, sia tradizionali, sia cooperative o collaborative. La presenza di svariate tipologie di dispositivi deve riprodurre, per quanto possibile, l’ambiente digitale domestico degli studenti, in modo che il lavoro in aula e a casa abbia elementi di continuità (un interessante elenco di elementi costitutivi di una scuola 2.0 è in un post di Will Richardson).
Chiudo, quotando, per intero, un pezzo di un ennesimo interessantissimo post di Gianni Marconato, a cui vanno sempre i miei sentiti ringraziamenti per gli innumerevoli spunti che mi offre (e che mi ha offerto durante la redazione della tesi), sui libri digitali:
"Le risorse didattiche da usare, il loro ruolo, i modi in cui si usano sono strettamente legati all’idea che ogni insegnante ha dell’apprendimento, di come le persone apprendono, di come, conseguentemente si insegna, ma anche di cosa gli studenti dovrebbero imparare. Se si è convinti che si apprenda meglio avendo un ruolo (cognitivamente) attivo, che lo scopo dell’apprendimento sia dare un significato a ciò che si è appreso, che gli studenti dovrebbero saper usare le conoscenze (e non solo memorizzarle) e di trasferirle in differenti contesti, che si dovrebbe imparare a collegare tra di loro le conoscenze acquisite, che si debba apprendere per uno scopo (e non imparare per imparare) ….. allora non ci resta altro che lavorare all’interno di ambienti di apprendimento, contesti didattici aperti, ricchi di risorse, dove lo studente è attivo, usa strumenti, elabora informazioni, interagisce … (rielaborato ad Wilson). Ambienti di apprendimento tanto come metafora per il contesto didattico nel suo insieme ma, anche, per il libro di testo in quanto tale. Magari attingendo alle “architetture per l’apprendimento” di Schank come basi concettuali. Più che monolitici “libri di testo”, tante risorse “liquide”, aggregabili reativamente, manipolabili da insegnanti e studenti, dove l’interazione, la collaborazione, la costruzione siano elementi fondamentali del setting didattico. Con una “visione” di lungo periodo, mi piace pensare che il luogo di sviluppo delle “risorse” didattiche (preferisco la prospettiva “risorse”, che quella di “libro di testo”) sia quello delle reti di insegnanti più che quello degli editori."
Non solo sottoscrivo, ma lo faccio con doppia e triplice linea. Una delle poche certezze con cui ho chiuso il lavoro di ricerca del triennio di dottorato è stata, anche e soprattutto dopo aver sentito insegnanti e presidi, la forte esigenza manifestata da tutti gli attori di una partecipazione diretta nel lavoro didattico di integrazione tra tecnologie e curricoli. Soprattutto, la possibilità di scambio di idee ed esperienze professionali è considerata come una forte spinta al miglioramento delle pratiche di insegnamento. A questa si lega, quindi, una diffusa necessità di formazione/informazione che, a mio avviso, può essere costituita, in primis, dalle reti di insegnanti e formatori in generale, in cui questi dialogano tra loro. Le comunità di pratica dei docenti potrebbero diventare un "sistema permanente" di formazione professionale continua, adottato, perché no, anche in maniera ufficiale dal Ministero per il tramite dei suoi Uffici Scolastici Regionali. Sarebbe possibile, mi chiedo, tentare di seguire questa strada? Certo non è molto battuta, ma, rifacendomi a una delle espressioni più belle di Robert Frost, è questa la via giusta da percorrere.
Un brindisi finale di buon compleanno all'email che ha, di recente, compiuto 40 anni. La cosa sembra essere passata un pò in sordina ma, che ci piaccia o no, la nostra vita, il nostro lavoro, il nostro modo di studiare e persino le nostre relazioni non sono mai state/i più la stessa cosa dopo la sua diffusione di massa, tanto da far pensare, a chi ama modelli e categorizzazioni facili, di poter dividere la recente storia contemporanea in due fasi: prima e dopo di "lei".
Appunti e segnalazioni conclusive:
- tre pubblicazioni che consiglio a chi si interessa di tecnologie e di come queste possono essere applicate nella didattica e anche in quella delle lingue: Le insidie dell'ovvio. Tecnologie educative e critiche della retorica tecnocentrica, di Maria Ranieri, ETS, 2011 (qui una breve recensione e qui l'indice del volume); Principi di comunicazione visiva multimediale, di Antonio Calvani, Giovanni Bonaiuti e Antonio Fini, Carocci, 2011 (qui una breve recensione); Linguistica e didattica delle lingue e dell'inglese contemporaneo. Studi in onore di Gianfranco Porcelli, a cura di Bruna Di Sabato e Patrizia Mazzotta, Pensa Multimedia, 2011 (la recensione del testo è sul numero 8-9 del 2011 della Rivista "Scuola e Lingue Moderne - SeLM", p. VII-VIII del Dossier BLE n. 20), soprattutto l'ultima parte del volume che è dedicata a "Nuove tecnologie e didattica delle lingue";
- il "Manifesto for teaching online", via Stephen Downes, è un progetto di docenti e ricercatori dell'Università di Edinburgo con lo scopo di stimolare idee sull'uso creativo dell'insegnamento con tecnologie di rete; è stato anche predisposto un apposito blog dove discutere sul tema;
- un'interessante tabella di Helen Barret che incrocia tool per l'e-portfolio e obiettivi di realizzazione; è un ottimo spunto per chi intende iniziare a provare a realizzare il proprio portfolio elettronico/digitale, senza dimenticare i suoi ormai storici modelli per l'e-portfolio;
- il numero 77 (gennaio/febbraio 2012) di Form@re, dedicato al progetto "Wironi", nato nel 2005 presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Siena in collaborazione con il Comune di Monteroni d’Arbia (Siena), "concepito per favorire dei percorsi di apprendimento sociale fra pari attraverso i processi di imitazione ed emulazione, sia nei luoghi di fruizione dei contenuti erogati da Wironi che nei luoghi di produzione di alcuni dei suoi contenuti";
- la timeline di Facebook del profilo del New York Times, che offre una serie di foto e prime pagine per ognuno dei gloriosi 161 anni di storia della popolare testata americana.