Genericamente si intende per utopia ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile realizzazione, assumendo nel corso della storia un’accezione anche negativa. Il significato al quale si fa qui riferimento non rimanda a parametri irrazionali o effimeri, che rischiano di sviare il ragionamento verso una fuga dal reale, ma riflette razionalmente un’istanza di bene possibile.
L’utopia si realizza nel reale e non rimane una fantasia di gruppi sociali; ma la questione principale è quella di stabilire se l’utopia si realizza sotto il segno del mito e quindi del logos o se invece su di essa rifletta unicamente lo specchio dell’ideologia, con la sua immagine di insoddisfazione che non va oltre se stessa e il proprio tempo. L’utopia può essere espressa, infatti, o nella forma di mito o nella forma di ideologia. L’utopia che deriva dal mito e che nel logos si riempie di contenuto è il fattore dinamico che consente all’ordinamento di conservare nel tempo un potenziale rinnovativo e innovativo. Solo l’ideologia progetta un sistema di vita unicamente per gli uomini come essi sono ora, senza ipotizzare un uomo che ancora non c’è, pensando già a come esso dovrebbe essere e comportarsi. Al contrario, una utopia che ha nel proprio bagaglio la ricchezza rinnovante del logos va sempre oltre la singola situazione storica, ma non con la volontà di affermare un modello per renderlo immutabile una volta raggiunto, perché tutto torni a essere sempre uguale a se stesso, ma al contrario, sempre vissuto relazionalmente in divenire.
Recuperare una “giusta” interpretazione dell’utopia significa contrastare le forme di mitificazione ideologica del mito. L’utopia non è incompatibile con il mito, ma si separa da esso nella misura in cui subentra un fattore ideologico mistificante che assorbe il mito e non lo riempie di logos, cioè di quell’apportatore di senso e novità che slega il mito dalla nostalgia del passato per inserirlo nella prospettiva dialettica di presente e futuro. Se il mito che riflette solo il pensiero ideologico impone una visione chiusa della realtà, l’utopia che conosce il logos e recupera un legame con il mito si apre a una comprensione aperta, razionale e relazionale del reale quale possibilità di novità.
Legare il concetto di utopia a quello di mito, ma ignorando l’apporto arricchente del logos, significa confondere tra di loro i due termini e pregiudicare il potenziale dell’utopia per metterlo al servizio di un tempo chiuso, ideologico, che riproduce se stesso e conosce una realtà falsa e irrealizzabile, in ultima analisi, illusoria. Il pensiero utopico è il superamento del pensiero mitico, nel senso che recupera la positività del mito quale tensione verso il bene, ma ne rifugge le patologie ideologiche che nel mito mistificano la realtà. Per tale motivo, uno sguardo utopico sulla storia dilata l’orizzonte del reale perché ne coglie razionalmente e dialetticamente la capacità di apertura e rinnovamento.
Il pensiero riflettente dell’ideologia rifiuta di relazionarsi al logos e lo scavalca, facendosi esso stesso anello di congiunzione tra mito e utopia; in questo caso, l’utopia non è più capace di novità e ulteriorità, ma cede alla mistificazione del mediocre utopismo astratto, irrazionale e quindi, incapace di avere forza rinnovatrice nel reale. Il mito interpretato ideologicamente nell’utopia è irrazionale perché esclude la persona e la sua relazionalità dialogica, imponendo ai soggetti di autoriflettere una immagine statica che è il mito senza logos, oltre a ignorare le condizioni reali di effettività e possibilità.
In tale frantumazione della socialità in individualità autoriflettenti non vi è posto per la verità e lo stesso vivere in societate perde la propria forza antropologica e si trasforma in quella assenza di socialità dialogica e razionale che nel mito ideologicamente utopico fa esperienza negativa della liquidità senza critica né proposta. Per la medesima ragione, anche la storia perde la propria ricchezza relazionale e dialettica e si consuma tutta in un momento senza prospettiva.
La conseguenza pratica della deriva ideologica dell’utopia e della visione mistificata della realtà, nonché del correlato impoverimento del concetto stesso di persona razionale e relazionale, è l’innalzamento della categoria di forza e di autorità a valore di riferimento. Nel momento stesso in cui il mito si lega all’utopia sotto la spinta mistificante dell’ideologia, il contributo personale di ciascun agente sociale viene meno: non vi è una societas da arricchire, ma un modello da ripetere nell’assoluto del momento presente e non da interpretare nel tempo della storia.
L’utopia mistificante non è più, dunque, al servizio della persona, ma diventa autoritario despota che impone alla persona come essere, in forza della propria visione autoriflettente. Al contrario, l’utopia che non si allontana dal logos e che riconosce una profondità di verità e di senso nell’agire storico della persona che vive in società, è un’utopia arricchente che consente l’interazione tra ciascuna persona e la società, ma in forme razionali, relazionali e di libertà, nella sicura affermazione di una pluralità di interpretazioni diverse ma dell’unica verità.
Secondo questa lettura antropologica dell’utopia, la persona recupera anche una relazione di integrazione con il tempo che torna a essere storia, cioè di quel luogo entro il quale si dispiega la tensione dialettica tra presente e futuro, e non momento. In tale senso, la persona riscopre la propria dimensione di futuro e con essa tutta la forza dinamica del rinnovamento, del gettare ponti nuovi, del relazionarsi non timoroso verso quanto vi è al di là di angusti confini ideologici. Solo un pensiero profondamente dialettico è capace di esaltare l’utopia con tutte le sue coinvolgenti istanze di rinnovata umanità e di bene; cosicché, attraverso l’esercizio del duplice riferimento alla realtà e alla persona, l’utopia guarda al futuro con le potenzialità della persona, senza mistificazioni e senza una proiezione finalistica di tipo quasi escatologico o eticamente pre-orientato, ma con la libertà e la relazionalità che della persona sono qualità irrinunciabili.
Alla luce di queste considerazioni appare più chiara l’esigenza di riportare la parola utopia nel lessico odierno. In un tempo di transizione che vede il dinamico intrecciarsi e sovrapporsi di comunità diverse ma tutte in trasformazione, il ruolo importante che svolge l’utopia è quello di mantenere aperto l’orizzonte, impedendo che singole interpretazioni mistificanti della realtà imbriglino il movimento verso il rinnovamento all’interno di un circolo non ermeneutico, ma autoriflettente nuovi miti.
All’interno di una società sempre più liquida che con difficoltà si riconosce accomunata in un vivere in societate, riscoprire il linguaggio dell’utopia, con il suo “modello” dialogico e relazionale permetterebbe l’interazione tra persone all’interno di un unico orizzonte, che è sempre quello più ampio possibile, secondo una condizione di possibilità di bene sempre ulteriore e accomunate da un ideale che supera il momento, e si aprirebbe alla ricchezza della storia, articolandosi sulla base di istanze critiche e razionali, ma senza dimenticare finalità pratiche e regolative.
A. Iaccarino, Legittimazione degli ordinamenti giuridici tra mito e utopia, in G.L. Falchi – A. Iaccarino, Legittimazione e limiti degli ordinamenti giuridici, 2012.