di Pietro Folena, Presidente Associazione MetaMorfosi
Si è soliti concludere i discorsi, soprattutto a sinistra, con la retorica sulla cultura come volano di crescita. La mia esperienza alla guida di MetaMorfosi -che in pochi anni è diventata protagonista di importanti attività di valorizzazione e di sostegno a istituzioni culturali preziose (cito, fra le altre, Casa Buonarroti, il Museo Civico di Bassano del Grappa, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, il Gabinetto delle Stampe e dei Disegni degli Uffizi) – è che il concorso di un privato, nel nostro caso un privato-sociale, al pubblico, avviene in una logica assolutamente keynesiana.
Lo schema ideologico della lunga stagione liberista, fatto proprio largamente anche dal governo presieduto da Mario Monti, privato contro pubblico, è del tutto recessivo. Per ciò che riguarda la cultura, proprio perché si ha a che fare con un bene che non si consuma (anche se va conservato e tutelato), il valore aggiunto di ogni euro investito si moltiplica.
Parliamo di cifre concrete. Molte fonti concordano nell’indicare in Italia in poco meno di 40 miliardi di euro il PIL della cultura, a fronte di una spesa pubblica di 1 miliardo e ottocentomila euro, con quasi 500.000 occupati. Alla cifra di 40 miliardi si potrebbero anche aggiungere, ma non lo faccio, le voci relative al turismo e all’enogastronomia. Ciò che interessa fotografare è il moltiplicatore della spesa in Italia: per ogni euro pubblico investito se ne generano più di 21. In Francia, a fronte di un PIL cultura di 74 miliardi, la spesa pubblica in cultura è di 8 miliardi e mezzo: per ogni euro pubblico se ne generano meno della metà rispetto all’Italia, e cioè circa 9. Dati analoghi si registrano in Germania e in Gran Bretagna, mentre in Spagna il moltiplicatore di spesa è di 5.
La forza di un grande discorso di industria culturale in Italia sta in quel numero magico: 21. 1 euro pubblico produce altri 20 euro privati. Del resto siamo il Paese al mondo col maggior numero di siti Unesco.
Quando si parla di spending review, anziché pensare a un altro nome anglosassone per tagliare il settore pubblico, si dovrebbe pensare a come ottimizzare la spesa, rendendola tutta produttiva ed efficace (perché una parte di quei due miliardi pubblici non lo sono).
Immaginiamo il programma di un Governo Bersani – dico Bersani perché lo voto, ma sarebbe auspicabile, su questo punto, una visione condivisa -. Aumentare nella prossima legislatura, con una cura shock di un miliardo l’anno, la spesa in cultura. Il Pil cultura crescerebbe di venti miliardi circa l’anno, con duecentomila occupati in più. Nel 2018, alla fine del quinquennio, si potrebbe immaginare, con 7 miliardi di impegno pubblico per la cultura, un Pil di 140 miliardi (poco meno del 10% del Pil totale), con un milione e mezzo di occupati, a fronte di un Pil del settore metalmeccanico di 120 miliardi circa.
Si tratta di cifre teoriche. Bisogna saper cosa fare, avere degli strumenti che effettivamente generino l’indotto e moltiplichino le imprese culturali nel nostro Paese.
Suggerisco alcuni punti:
1) una grande enciclopedia digitale italiana, autorevolmente proposta in questi giorni, di tutti i beni culturali (monumenti, opere, musei, biblioteche, archivi, istituzioni culturali), come base dell’anagrafe della nuova industria culturale;
2) l’adozione, o l’affidamento dei beni catalogati a privati che, sotto la guida delle istituzioni e delle sovraintendenze, si facciano carico di restauri, valorizzazioni, esposizioni, gestioni, facendo del mecenatismo democratico la chiave di una nuova grande politica culturale;
3) la trasformazione di Arcus spa – che inopinatamente il Governo Monti voleva chiudere, e che ora invece sembra riconfermata – nello strumento pubblico, con criteri nuovi e trasparenti, di intervento nell’economia della cultura, mettendo insieme Stato, Regioni, Comuni e Fondazioni, per finanziare in quota-parte progetti e start-up culturali; penso a una sorta di grande IRI della cultura, che promuova impresa, occupazione e lavoro per moltiplicare la ricchezza prodotta in questo settore;
4) un nuovo regime fiscale per gli investimenti in cultura, a cominciare dalle liberalità e dalle donazioni, e un accordo col sistema bancario -a partire dal ruolo delle Fondazioni bancarie- che effettivamente favorisca l’intraprendenza culturale, specialmente quella giovanile;
5) sul versante delle entrate nelle casse pubbliche della cultura, la scelta di venti o trenta grandi brand culturali italiani (dal Colosseo a Michelangelo, dalla Torre di Pisa a Caravaggio), attorno ai quali costruire una politica di valorizzazione dei diritti di immagine, di merchandising culturale, di raccordo con industrie manifatturiere che vogliano collegare i loro prodotti alla cultura italiana, tanto apprezzata in tutto il mondo; i proventi di questi diritti potrebbero finanziare largamente una parte dell’intervento pubblico.
Si tratta di ipotesi, certamente da discutere. Quello che è certo, però, è che i numeri invitano a scommettere su questa partita. Anzi: a giocare il 21, numero magico. A condizione che non continuiamo a pensare che l’intervento pubblico è il male. I privati -e non solo, come MetaMorfosi, quelli che non hanno fini di lucro- hanno bisogno non di avere soldi da uno Stato indebitato, ma di operare dentro il quadro di una politica industriale della cultura.
(da l’Unità del 26 ottobre 2012)
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