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“Sicuramente sembra strano che sia qui, cosa c’entro non canto non ballo; scrivo vengo da un altro percorso. Eppure in realtà sono convinto che è il posto giusto. Cerco sempre di parlare a ragazzi, mi nutro dell’incontro con loro, vado nelle scuole, nelle università e questa in qualche modo è una scuola particolare e quindi sono contento e lo ritengo un privilegio potervi parlare. Siete in un’età in cui scrivete il futuro, siete in un momento cruciale e la mia generazione come anche la vostra spesso si trova di fronte la possibilità unica di realizzarsi andando via. La maggior parte dei miei amici sono andati via, io sono nato a Napoli e sono andato via e mi torna alla mente un racconto che ha fatto uno scrittore marocchino si chiama Thar Ben Jelloun dove c’è un dialogo tra una bambina, una ragazzina, Malika 14 anni e il protagonista di questo libro chiede: cosa vuoi fare da grande? E la ragazzina risponde partire. Ma partire non è un mestiere! No partire, poi si trova un mestiere. Quante volte avete fatto questo pensiero o lo farete, innanzitutto partire poi si vede. E questa è una risposta a qualcosa che non funziona. Siamo abituati in qualche modo a vedere, ad esempio nei tg, nelle news, ormai con una certa indifferenza tutti coloro che partono dalla loro terra, i barconi, Lampedusa, sentiamo il numero dei morti spesso elevatissimo e passa così, come un elemento ordinario che ci sta, sta nelle cose. Ora vorrei per un momento provare ad indicarvi quali sono le storie che stanno dietro quei numeri o quello che sta succedendo perché spesso al di là degli slogan è fondamentale approfondire. L’informazione, quello che leggete sui giornali, il commento su Facebook, il commento politico. L’informazione è come un lago ghiacciato, ci puoi pattinare sopra, scivolandoci, stando in piedi, puoi appagarti di un titolo, puoi appagarti di un’opinione oppure puoi rompere quel ghiaccio tuffarti andare in fondo e farti un’opinione tua, prendere diverse fonti, avere un’idea, cambiarla. Prendere un libro, approfondire, tempo. Prendersi tempo per capire. Questo ho provato a condividerlo portando qui delle foto, delle foto che possono raccontare meglio delle parole talvolta, quello che sto provando a comunicare. La prima foto, è la foto di una bambina che forse avrete visto sui social network, che ha una storia che certo è sintetizzata da questa immagine drammatica. Lei vive in un campo profughi siriano, è un campo profughi tra la Turchia e la Siria. Osman è un photo-reporter che arriva in questo campo e ha un tele obiettivo, in questa posizione, raccoglie l’obiettivo, chiude un occhio e scatta. Non si accorge di nulla, sta fotografando le famiglie, è arrivata lì con sua madre e i suoi fratelli. Quando va a vedere il suo lavoro si accorge che questa bambina si è arresa a lui. Ha alzato le mani, perché non ha mai visto una macchina fotografica molto probabilmente ma ha visto molti fucili. E quindi rispetto ad un altro bambino che avrebbe fatto una smorfia perché ne ha viste molte di macchine fotografiche, lei ha visto un gesto che è simile perché anche chi ha un fucile chiude un occhio per mirare, anche chi ha il fucile mantiene una parte e anche chi ha il fucile ha il dito, non ce l’ha verticale, ha un dito visibile ma ce l’ha sul grilletto quindi lei secondo la sua logica alza le mani come ha visto fare mille volte e si mette anche in protezione – quello che lui stesso dice in un intervista – non apre le mani ma le chiude. Questa è una foto che racconta esattamente quello che cercavo di dirvi, perché lei viene da una famiglia che scappa, arriva su quei barconi per quelle strade, quelle storie che ascoltiamo senza alcuna empatia spesso, se non raramente. E per continuare a raccontare, trovare un dettaglio che ti permette di aprire un nuovo universo di senso ho portato un video che vorrei farvi vedere. È un video, sembra una macchia confusa, sta aprendo un auto, sotto quell’auto sullo sfondo ci sono due persone – forse una – e Melilla sta venendo in una città del Marocco che però è territorio spagnolo, in questa macchina nel doppio fondo è nascosto un ragazzo. È un’altra strada che viene utilizzata per arrivare qui. Perché a Melilla c’è un immensa gigantesca grata che divide l’Africa da questo lembo d’Europa in Africa i ragazzi si arrampicano dopo giornate passate ad attraversare il deserto e non riescono perché o vengono arrestati o sono pieni di febbre e non riescono ad arrivare fino alla cima, non ce la fanno la polizia sotto li prende, due su 100, tre su 300 cambiano continuamente le statistiche, riescono a passare, allora utilizzano i doppi fondi delle auto, spazi minuscoli, poco ossigeno al buio ore, tombe mobili… Chiudo con un pensiero che mi torna spesso alla mente e riguarda il resistere, io sono convinto che partire vuol dire spesso resistere, difendere la propria dignità, avere fede – come religiosa – in una possibilità di migliorare la propria vita, quindi hanno fede nella speranza contro ogni possibilità, barche marce, soldi dati a questi trafficanti, ma hanno la fede che possa cambiare qualcosa, quindi immagino la loro attività come attività di resistenza per cui mi è venuto in mente Piero Calamandrei padre della costituzione italiana che ha scritto delle righe su altri resistenti, partigiani indicando come noi di fronte a tragedie così gravi di fronti a morti potevamo rispondere. Come si può rispondere? E lui meglio delle mie parole scrive questo: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere. Si sono riservati la parte più dura e più difficile, quella di morire di testimoniare con la resistenza e la morte, la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito 100 volte più agevole quello di tradurre in leggi chiari, stabili e oneste il loro sogno, di una società più giusta e più umana di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore, non dobbiamo tradirli”.
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