Anna Lombroso per il Simplicissimus
“Così come il governo, bene o male, sta facendo il meglio che può per migliorare la situazione, ci aspettiamo, anzi esigiamo a nome del Paese e dei cittadini che imprese e sindacati facciano qualcosa di più con il loro diretto e congiunto impegno”: è l’odierna sconfortante esternazione del presidente del Consiglio Mario Monti intervenuto a Milano Unica, che a lui piacciono queste passerelle di un mondo produttivo che produce sempre meno e prodotti che nessuno vuole.
Davvero fa cascare le braccia questa combinazione di protervia, ottusità, irresponsabilità. A ognuno la sua parte, intende dire, il governo ha la coscienza pulita, alle imprese abbiamo offerto su un piatto la testa dei lavoratori, con la Fornero come Salomè, e anche i loro corpi e i loro diritti ridotti a merce. Adesso, caspita, spetta ai sindacati comprendere che è loro interesse consolidare un’alleanza, un patto con industria, governo, mercato e finanza.
Non è certo nuovo questo richiamo paradossale all’unità, in tempi di disgregazione, di erosione della coesione sociale, di rottura violenta dei legami antichi tra generazioni, affini, omogenei perché ugualmente colpiti. Non è nuovo il monito a tenersi stretti perché si è sulla stessa barca, padroni e lavoratori, sfruttati e sfruttatori, produttori e consumatori, privatizzatori e utenti, speculatori e cittadini.
Non è nuovo ma è ancora più rivoltante. Finchè lo diceva Adam Smith, che c’era una manina benefica della Provvidenza che lasciava cadere polvere di benessere sui poveri grazia ai profitti dei ricchi, si poteva pensare a una interpretazione arcaica delle redistribuzione. Ma se Tremonti, Sacconi, Monti vogliono persuaderci che è preferibile stringere un patto disuguale e grottesco, non possiamo non aspettarci che lo dicano col ghigno del Gekko di Wall Street, col ceffo della Banda Bassotti, con la perversa determinazione del boia che affila la lama.
Non ci meriteremmo una pedagogia così grezza e cialtrona: dirigenti e operai, proprietari e dipendenti hanno tutti interesse che una impresa funzioni bene e renda. Eh si, sono sulla stessa barca, magari la Medusa, ma fa lo stesso. Perseverare nel sostenere che abbiano interessi diversi, che appartengano a classi diverse e obiettivamente contrapposte farebbe parte di una ideologia arcaica, dannosa per ambo le parti, quindi riprovevole. Operai e padroni dovrebbero quindi essere “complici”, proprio come i settimanali femminili suggeriscono di fare per superare la guerra dei sessi, imprenditori e sindacati coesi, intesi a regolare in armonia il conflitto strutturale tra le classi.
Monti insomma scavalca Weber e ci propone una via di compromesso negoziata, proprio lui che aborrisce la concertazione, per superare le disuguaglianze a modo suo, per aggirare le differenziazioni nelle possibilità di vita, determinate dal diverso accesso ai beni, all’istruzione, all’assistenza, al lavoro. Da uomo della provvidenza a uomo del destino, indica una nuova pacificazione storica a beneficio, sia pur differenziato, di tutti.
Tacendo che oggi più che mai le classi sono separate e in guerra e che il destino pare si sia schierato premurosamente da una parte, se la nostra sorte dipende dall’avere o no un buon livello di istruzione, conoscere le lingue, poter scegliere come e dove abitare, mantenersi in salute e avere i mezzi per farlo, seguire le proprie inclinazioni liberamente, che anche il loro dispiegarsi è a pagamento, non temere che il più piccolo ostacolo metta in forse unità e la sopravvivenza del proprio nucleo familiare.
Sottovalutando, la cosa non lo interessa, che per garantire destini omogenei sarebbe preferibile cominciare col garantire la democrazia. Offesa già dal suo incarico, e ferita a morte dalla manomissione della Carta, grazie soprattutto al pareggio di bilancio e all’attuazione nel nostro ordinamento del “Patto fiscale”, il trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Che comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032. Una cifra mostruosa aperta a un’alternativa aberrante: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese al susseguirsi di generazioni di povertà. Sancendo la più infame delle bugie: che la crisi sia causata dall’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale e non dalle distorsioni dell’egemonia incompetente del sistema finanziario.
E anche in virtù di questo vulnus oggi più che mai l’appartenenza a una classe diventa il castigo a una comunità di destino, ineludibile, ferrea, implacabile, approfondendo le disuguaglianze tra chi ha diritto alle scelte, al futuro, alla promozione di sé e chi invece è condannato a subire la retrocessione alla servitù, alla perdita di aspettative, alla rinuncia al sogno di sé e alla persona che vuole essere.
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