La notizia è di ieri, ma prima sarebbe opportuno darla e comprenderla correttamente. La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha decretato il pieno diritto all’esenzione sponsale dal pagamento delle imposte di successione anche per le coppie dello stesso sesso. Codice alla mano, dal momento che tali coppie godono di un pieno riconoscimento giuridico sia pure soltanto in dodici dei cinquanta stati che compongono il territorio nazionale, non fa una grinza. Al contrario:
si tratta di un incentivo indirizzato ai trentotto stati rimanenti al fine di colmare il vuoto giuridico derivante dalla palese contraddizione tra la legge federale e le leggi in vigore nei singoli stati. Tale decisione va senza alcun dubbio considerata come un passo avanti in direzione del pieno riconoscimento dei diritti civili (che, come ricordava opportunamente lo slogan del gay pride svoltosi a Palermo la scorsa settimana, sono prima ancora diritti umani) delle coppie omosessuali.
Immancabile ed ottuso è giunto il parere della conferenza episcopale statunitense, per bocca del suo presidente, il cardinale newyorkese Timothy Dolan (uno dei papabili, pochi mesi orsono), che ha tuonato: «La Corte Suprema ha sbagliato». Si vede che l’ingerenza della chiesa nell’agone pubblico non è soltanto un fenomeno nostrano; la differenza consiste però nel fatto che la giurisdizione statunitense non consente agli alti prelati diktat né intimidazioni: prende atto e procede.
Prosegue l’inflessibile cardinale: «Oggi è un giorno tragico per il matrimonio e per la nostra nazione»: questione di punti di vista, quegli stessi che un cattolicesimo intransigente ed autoritario ignora nella sua pretesa omologante. E, non pago, l’esimio porporato soggiunge: «Il governo federale dovrebbe rispettare la verità (sic!) che il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna». Nemmeno il dato di fatto o, come in realtà è, la convenzione culturale: la verità, naturalmente con l’articolo determinativo, ovviamente quella che il magistero cattolico custodisce indefettibilmente e dispensa generosamente a noi relativisti impenitenti.
Diritto è, notoriamente, una parola ignota alle gerarchie ecclesiastiche che, nell’arco della loro storia tutt’altro che irreprensibile, hanno predicato indefessamente obbedienza a un pensiero unico dal quale non è lecito dissentire, persino se nel cattolicesimo e nei suoi ordinamenti morali non ci si riconosce: intramontabile pretesa di chi è immancabilmente convinto di parlare urbi et orbi. Ma l’orbe, da molto tempo ormai, si sta sempre più affrancando dalle ristrettezze asfittiche dell’urbe, decretando l’inevitabile fine di un’etica inconsistente perché eteronoma. La realtà, difatti, è – come noi, del resto – in costante trasformazione e procede nella sua metamorfosi incurante dei recinti entro cui vorrebbero rinchiuderla i pii e benpensanti di ogni tempo e luogo.
Scriveva il grande romanziere André Gide, nel suo capolavoro I falsari: «Man mano che un’anima si immerge nella devozione perde il senso, il gusto, il bisogno, l’amore della realtà (…) L’abbaglio della loro fede li acceca sul mondo che li circonda e su se stessi. Io, che tengo soprattutto a vedere chiaro, resto sbalordito dall’estremità di menzogna di cui può arrivare a compiacersi un devoto»[1].
Alessandro Esposito – pastore valdese (tratto da MicroMega on-line del 27 giugno 2013)
Tratto da: André Gide, I falsari, Bompiani, Milano, 1990, cit. pp. 101-102 (traduzione – splendida, peraltro – dal francese di Oreste Del Buono)