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Il mostro. Una vita da Briatore

Creato il 22 agosto 2012 da Albertocapece

Il mostro. Una vita da BriatoreQualche giorno fa ha compiuto 50 anni Il sorpasso, uno dei film cult del nostro cinema: un apologo degli anni del boom in cui si racconta come la fragile borghesia nostrana, rappresentata dal personaggio  di Trintignant, si lasci alla fine irretire dalla cialtroneria, superficiale e immorale interpretata da Gassman, giungendo a un tragico finale. Un anno dopo l’opera di Risi, uscirà un altro film fondamentale di quella breve stagione in cui la commedia all’italiana riuscì a sintetizzare una forte capacità di critica dentro a una narrazione leggera, ma senza la successiva futilità comica: I mostri. Qui arroganza, disonestà, noncuranza, mancanza di scrupoli, astuzia feroce, volgarità innata si mescolano in un affresco più bozzettistico e descrittivo, ma  incisivo di vizi e deformazioni che sarebbero stati elevati al rango di virtù.

Più che film sono profezie: e infatti mentre corriamo sull’orlo del baratro, prosperano mostri. Proprio ieri ne ho visto uno facendo zapping prima di cena: ho visto Flavio Briatore che è di fatto il prodotto di quella corruzione che il cinema denunciava già mezzo secolo fa. L’uomo, mentre l’ultima grana fiscale per evasione imperversa sulla sua faccia di bronzo, sarà protagonista di una trasmissione in cui selezionerà aspiranti manager o almeno così credo di aver capito. E nel presentarla fa sfoggio di una sorta di sbracato calvinismo nel quale dovrebbero convergere sacrificio, lavoro, correttezza, merito e quant’altro, tutte cose che  il personaggio non ha mai conosciuto in vita sua .  Si Flavio Briatore è un vero mostro e al tempo stesso una metafora: è l’ibridazione oscena e aliena fra la vulgata popolaresca e telefilmica del liberismo coniugata alla noncuranza etica e alla cialtroneria. Flavio Briatore è ciò in cui si sarebbe trasformato Trintignat se non fosse morto nel sorpasso.

Il fatto che un personaggio del genere , dopo aver attraversato ogni ambiguità, opacità e incompetenza, venga a fare lo “sborone”  in tv, è segno di una società profondamente malata nella quale le piaghe del berlusconismo si saldano alle lesioni interne meno visibili, ma anche più gravi, di una concezione volgarmente egoistica e politicamente oligarchica prodotte dal retrovirus tecnico. In effetti nella biografia di Briatore c’è molto di una biografia del Paese e forse vale la pena di riepilogarla nelle sue tappe essenziali, nei suoi istinti profondi, nella vacuità che ha affascinato e oggi spaventa.

Dunque lo sborone non era un fulmine di guerra: bocciato a ripetizione nel tentativo di prendersi il diploma di geometra, riuscì a conquistare  il pezzo di carta da privatista con il minimo dei voti: si racconta che abbia presentato una tesina sulla costruzione di una stalla che non pare essere proprio l’apice della sofisticazione costruttiva. Ma a Cuneo dove è nato e vive diventa ragazzo di mondo pur senza aver fatto il militare: un po’ playboy nella sua funzione di maestro di sci, un po’ imprenditore con un ristorante che in pochi mesi fallisce, si arrangia, “tribula” in dialetto locale che infatti diventa il suo soprannome. Però a forza di tribolare in molti mestieri e affarucci senza alcun successo arriva anche per lui la grande occasione: conosce non si sa bene in quale occasione e per quali motivi Michele Dotto che lo prende come assistente personale. E in questo “personale” c’è qualcosa di oscuro che si ripresenterà spesso nella vita di Briatore.  Dotto era un imprenditore edile, ma con molte diramazioni, tanto che aveva rilevato la Paramatti Vernici da Michele Sindona, un personaggio che solo a nominarlo evoca mafia e finanza. Pregiudizi, di certo: fatto sta che il 21 marzo del ’79 l’imprenditore salta in aria con la sua auto a cui era stata applicata una bomba.

Il minimo che si può dire è che forse gli affari di Dotto non erano proprio chiarissimi e chissà se ne sapeva qualcosa il suo assistente che come nei migliori romanzi sparisce da Cuneo per ignota destinazione, così come spariscono trenta miliardi appartenuti a all’imprenditore e mai ritrovati. Lui, Flavio,  riappare invece a  Milano dove si dà arie da finanziere, ma in realtà coltiva la protezione  di un nuovo protettore, Achille Caproni, proprio quello delle industrie aeronautiche. Le doti di seduzione di Briatore funzionano benone, ma non altrettanto le sue capacità: convince Caproni a comprare la Paramatti Vernici e a metterlo alla testa della Compagnia Generale Industriale, ma provoca un crack da 14 miliardi e la chiusura di molte aziende.

Certo come biglietto di presentazione per fare il giudice, sia pure televisivo, di aspiranti manager non è un granché, soprattuto quando lo sente dire che per lui il libro delle scuse ha poche pagine. Ma intanto si è fatto un giro di tutto rispetto nella Milano da bere: va in giro con Iva Zanicchi dicendo di essere agente discografico, frequenta e dà feste, si circonda di modelle come carta moschicida per gonzi infoiati, ma soprattutto conosce i vizi dei potenti. E insomma organizza una sorta di banda per trovare e spennare polli al tavolo da gioco. I fili della truffa venivano tirati da eredi del  clan Turatello e Briatore agiva assieme a un altro personaggio che a tempo perso, soprattutto per telespettatori e lettori, faceva il giornalista: Emilio Fede. Dopo aver svuotato le tasche di personaggi noti e potenti come Sanson, quello dei gelati e il cantante Pupo, incappa in un inchiesta giudiziaria ed è costretto a scappare a Saint Thomas, nelle Isole Vergini dalle quali tornerà solo dopo un amnistia.

Probabilmente fare il cerca polli era un’attività lucrosa, ma secondaria, un’occasione per prendere e tenere contatti tra gente che conta ed essere coinvolto in affari assai poco chiari: il suo nome rientra anche in una vicenda da 330 miliardi delle Generali finiti dentro un affare complicato e con infiniti passaggi che alla fine dovevano servire a Gheddafi per aggirare l’embargo sulle armi. E nella sua agenda compare anche un numero di New York, il   212-833337, accanto al nome “Genovese”. L’inchiesta sulla attività della banda di biscazzieri accerta che il numero è quello di un azienda di John Gambino.

Fatto sta che durante l’esilio alle isole contatta un vecchio amico di feste, Luciano Benetton, conosciuto per tramite di Romano Luzi, maestro di tennis di Silvio Berlusconi e poi suo factotum  per i fondi neri. E l’imprenditore tessile gli affida l’apertura di negozi in franchising in Usa e nei Caraibi, impresa che riesce facilmente (pensiamo a quel numero di New York), ma  mediocremente, tanto che alcuni punti vendita dovranno essere chiusi. Anche come fiduciario di Benetton per i negozi americani il tenore di vita che Flavio fa tra le spiagge del Caribe  non è facilmente giustificabile come fa intendere la ex modella  Marcy Schlobohm, con cui conviveva già a Milano e divenuta sua prima moglie alle Isole Vergini. Misteri. Ma evidentemente non tali da impedire che Benetton affidi a Flavio un suo giocattolo, la scuderia di Formula 1.

E da lì che il biscazziere, porteur, venditore, uomo d’affari opachi Flavio Briatore arriva agli onori delle cronache, soprattutto per un colpo di sedere: aver cercato di prendere i piloti che costavano meno ed essersi imbattuto in Michael Schumacher. Due campionati vinti con il grande pilota, poi un lungo vivacchiare fino a una radiazione poi rientrata. Tutte cose abbastanza note e che hanno trovato il loro diapason nel Billionaire, il locale messo in piedi come un’ autocelebrazione del proprio mondo oscuro e vacuo. Certo ai suoi aedi sfuggono facilmente altri fatti degli anni 90: il suo coinvolgimento in un’inchiesta  di mafia per essere stato ascoltato in conversazioni telefoniche con Felice Cultrera all’epoca uomo del boss Nitto Santapaola o la bomba che fece saltare la porta della sua casa londinese del ’93 e che la polizia inglese considerò un attentato dell’Ira.

Adesso è lui che fa il boss in televisione, fingendosi un grande manager davanti al grande pubblico, come del resto ha sempre fatto nei salotti. Un altro basso servizio, questa volta fatto direttamente  alla menzogna. E’ l’auto che sbanda, è la nostra società che è sul filo del precipizio. E che purtroppo non è caduta come cinquant’anni fa.


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