di Iannozzi Giuseppe
Ha tentato il suicidio il mio vecchio mulo.
Non credete sia possibile?
Io dico che lo è.
L’animale è intelligente abbastanza per rendersi conto che la sua anima è costretta nelle abiette sembianze d’un mulo.
Al mio mulo tutti lo prendono a calci, io sto a guardare, e quando no gli assesto anch’io due calcioni, giusto per capire se soffre o no. Mi diverto? No. Con i muli non c’è altro da fare, sono bestie che capiscono a modo loro, cioè male, ed allora bisogna batterli di santa ragione.
Non ha retto più. Ad un certo punto s’era deciso di darci un taglio, definitivo.
Avete mai provato voi a dissuadere qualcuno dal non farlo? Mi sa proprio di no. In ogni caso vi assicuro che è un’impresa degna di Giove convincere un potenziale suicida a non sbattersi tra le grinfie di Ade. Si sappia poi che io non sono affatto un bravo oratore: mastico poche parole, con grezzezza e parsimonia. Mica ho studiato io. La schiena me la sono spezzata giorno dopo giorno nei campi a zappare, con il sole o no. Non sono mica un Seneca, solo un contadino povero in canna con distrazioni di niuno valore, come quella di rompere i coglioni al mio mulo. Tuttavia m’è toccato d’andargli a parlare a quattrocchi. Una faticaccia, per per tutti i Numi, una faticcaccia.
Il sole tramontava bello bello incurante degli affari umani e ancor più di quelli degli animali, mentre io indarno cercavo di far ragionare il mulo, che minacciava di gettarsi a capofitto in un profondo dirupo.
Gli sparo un calcio in mezzo alle chiappe, come sempre, ma non reagisce, non minaccia nemmeno di tirarmi una zoccolata dritta in fronte; si limita a fissare il fondo pietroso del dirupo. Mi accorgo che frigna al pari d’una qualsiasi donnetta di malafffare. Gli dico che togliersi di torno non gli darà la felicità. L’argomento non lo convince; ribatte però che non gli procurerà altra infelicità, e questo gli può bastare.
“Un ibrido sterile…”, piagnucola.
“E allora? Che vuoi?”
“Pestato da mane a sera da tutti”.
“E con questo?”
“Niente. La faccio finita”.
“Stupido animale”.
“Giusto: stupido come un mulo”.
“Insulti adesso?”
“Sintetizzavo la mia situazione, stupido, è questo che sono”.
“E trovi che buttarti di sotto sia la soluzione”.
“Forse che sì forse che no”.
Il carro d’Apollo è oramai nascosto nel grembo delle montagne e la notte ci alita addosso. Il freddo mi taglia il respiro. Di stare dietro a un mulo non tengo voglia. Non più. Penso d’aver fatto tutto il possibile per tenermelo amico.
Il mulo si volta verso di me. Ha due occhi che fanno paura tanto sono umani. Piange. Non l’avessi visto coi miei occhi non ci avrei creduto. Piange e lo fa senza ritegno, proprio davanti a me che sono il suo dannato padrone. Piange e non se ne vergogna. E’ ben peggiore d’una donnetta, poco ma sicuro. Penso che non ha poi torto, che ammazzarsi sia la soluzione anche se dopo a me mi toccherà di trovare un rimpiazzo.
Lo lascio dunque sull’orlo del dirupo e faccio ritorno a casa con le stelle sopra la testa a indicarmi il cammino.
Passati due giorni a cercare un buon mulo, ma niente. Chi vende vende a caro prezzo. Ammetto d’aver cominciato a temere per il mio lavoro: senza un animale da fatica ero bello che inguaiato. Poi una sera lo vedo. E’ il mio, non ci sono dubbi. Non ce l’ha avuto il coraggio.
Ha il solito brutto muso: scontroso e testardo. Non ha però più occhi piangenti né vagamente umani. La storia è tutta qui. Il mulo è tornato. L’ho subito preso a calci e bastonate. Nessuna reazione. Gli ho regalato una mezza carezza, con stanchezza, null’altro.
Non abbiamo più discusso. Lui ha continuato a fare il suo lavoro, io il mio. E’ morto di stanchezza, forse anche di vecchiaia, ma ha dato fino all’ultimo giorno senza lamentarsi, intestardendosi alla sua maniera e da me ricevendo bastonate più che meritate.