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Il Mundial dimenticato: la leva calcistica della Patagonia '42
Creato il 16 agosto 2012 da SaramarmiferoVorrei tranquillizzare i tifosi del pallone. Se non avete memoria di un certo mondiale di calcio, disputatosi nel 1942 in Patagonia, non temete. Non l'avete dimenticato. Semplicemente, non è mai esistito. E se qualche spettatore meno smaliziato fosse cascato nella trappola falsamente documentaristica tesa dagli esordienti Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, sarebbe pur sempre in illustre compagnia. Pare, infatti, che un noto giornale sportivo, di cui non farò il nome (DI COLORE ROSA), abbia scampato per un pelo la pubblicazione di un articolo nel quale si parlava del torneo come di un evento realmente accaduto. L'intervento tempestivo di un redattore meglio informato ha evitato in extremis imbarazzanti rettifiche. Storie di ordinaria, o per meglio dire quotidiana, follia, in quel teatro dell'assurdo che troppo spesso fa da sfondo alla stampa italiana. C'è da dire che gli autori di questo delizioso mockumentary (genere che sempre più sta prendendo piede nello Stivale, vedere per credere nell'archivio di questo ottimo blog http://falsidocumentari.blogspot.it/), hanno fatto un lavoro egregio nel rimescolare materiali di repertorio (in particolare pescando a piene mani tra le impolverate bobine dell'Istituto Luce) ad inserti girati secondo lo stile dell'epoca e testimonianze, più o meno verosimili, di alcune celebrità dell'ambiente calcistico (Roberto Baggio, Joao Havelange, Gary Lineker).
Seguendo alla lettera la grammatica del found footage (l'oggetto ritrovato), il film, liberamente tratto dal racconto Il figlio di Butch Cassidy di Osvaldo Soriano, parte proprio dal rinvenimento, presso un sito archeologico, di uno scheletro umano avvinghiato ad una vecchia cinepresa. Tornano così alla luce le immagini del fantomatico campionato di calcio improvvisato in Patagonia nel 1942, in piena II Guerra Mondiale, in barba alla sospensione delle competizioni sportive decretata dopo i mondiali del '38 dalla FIFA, grazie alla determinazione del Conte Otz, mecenate idealista e bizzarro. É il racconto che tutti vorremmo leggere sui libri di storia: un arbitro che risolve le controversie a colpi di revolver, una manciata di squadre non professionali, composte per lo più da operai immigrati e funambolici circensi che, indossata la divisa della nazionale, sono pronti a calciare in rete l'utopia di uno sport puro che unisca, e non divida, gli individui (scusate la sviolinata, ma le Olimpiadi sono appena terminate e il mio inchiostro è ancora imbevuto di retorica sportiva). Il risultato è, nel complesso, davvero esilarante. Tante sono le trovate visive e narrative di questo finto documentario, nel cui cuore sentiamo battere distintamente il ritmo scoppiettante della commedia. Mentre sui campi di battaglia del vecchio continente i deliri di Hitler trascinano i popoli in una spirale di rigurgiti razzisti, sul terreno di calcio argentino si affrontano un ipnotico portiere indigeno e un occhialuto nazista dall'animo nobile. La posta in palio è, più che la coppa del mondo, il cuore di una bella e volitiva fotografa ebrea in odore di emancipazione. La rivalità, virata nei colori tenui dell'amore, affossa la tetra contesa per il predominio delle razze.
Braccio destro di Otz, nonché suoi occhi, è il cineoperatore Guillermo Sandrini, senza dubbio il miglior personaggio partorito dalla fervida immaginazione del tandem Garzella-Macelloni. Pioniere a metà strada tra Georges Méliès e Leni Riefenstahl, la cui geniale inventiva viene omaggiata attraverso la ripresa di alcune delle tecniche innovative (le carrellate realizzate con binari per riprendere il pubblico o le cineprese posizionate in buche nel terreno per le gare di atletica) messe a punto dalla regista tedesca durante le riprese di Olympia, il documentario sui giochi olimpici di Berlino 1936, ovviamente qui spacciate come idee di Sandrini e ribattezzate con buffi nomi: la cine-pelota, il cine-casco. Questo visionario artigiano della celluloide deve essere parente stretto di Colin McKenzie, padre fondatore del cinema neozelandese, inventato di sana pianta da Peter Jackson nel suo Forgotten silver, non a caso citato dagli stessi registi come mockumentary preferito.
La riflessione, inevitabile, che questo Mundial dimenticato suscita attorno alle presunte doti mistificatrici del mezzo cinematografico, riporta alle labbra l'antica vexata quaestio “può un film influenzare il presente?”, rimasticata dai critici ad ogni uscita nelle sale di pellicole cosiddette impegnate. L'opinione di chi scrive è che, dando uno sguardo alla storia, è già molto se si riesca a descriverlo, il presente. Ricordando che, dietro al dono affabulatorio della settima arte, si nasconde talvolta l'infido veleno della propaganda. Certo è che il cinema può cambiare il passato, riparare torti e riscattare, in quel paese dei balocchi che è la finzione narrativa, la memoria di coloro che il vento della storia ha abbattuto. Mi viene in mente la strana euforia che mi assalì di fronte alla vendetta ebrea scatenata da Mélanie Laurent contro i nazisti evocati da Tarantino in Bastardi senza gloria. La stessa vertigine nel vedere i Mapuchi competere per diventare campioni del mondo. Soprattutto, la forza del Mundial dimenticato sta nella vibrante dichiarazione d'amore per un calcio leggendario, forse davvero mai esistito, fatto di estro e passione. Merce rara in questi tempi bui di calcioscommesse. Dobbiamo forse inventarci un mondiale lontano nel tempo e nello spazio, per ricordarci che, come cantava De Gregori, un giocatore si vede dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.
p.s. Si ringrazia Enrico, senza il quale non avrei forse mai visto questo film
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