Premessa: mi scappa una dichiarazione d’amore musicale. Daniele Coccia ha il dono di una voce meravigliosa. Avessi una voce del genere non starei zitta un attimo. E’uno che già se ti dice “buongiorno” tu sei a posto. E’uno dei rari casi in cui il cantato è bello e preciso dal vivo quanto e più che su disco. Se Daniele Coccia si mettesse a cantare “Il valzer del moscerino” o le istruzioni del forno a microonde ne verrebbe fuori un capolavoro. Per intenderci, una voce che è la versione emozionale di quella di quel maschione baritono di Till Lindemann dei Rammstein.
Ciò detto, detto, vi racconto cosa fa il buon Daniele Coccia per meritarsi questa sviolinata.
Che ci si creda o no, c’è stato un tempo in cui noi romani non eravamo un popolo di nevrastenici bloccati nel traffico, succubi del clacson, costantemente rappresentati da personaggi televisivi/sportivi/cinematografici che ci hanno definitivamente rovinato la reputazione. C’è stato un tempo in cui la linea di demarcazione tra la schiettezza e l’arroganza era molto più netta.
Sto parlando, ovviamente, di un tempo che non c’è più. Che io, un’under 30, non ho mai conosciuto direttamente ma che mi è stato raccontato da chi ha vissuto Roma una o due generazioni fa. Era il tempo, questo, degli stornelli.
Per i romani, gli stornelli sono roba seria. E non parlo solo del classico “ma che ce frega, ma che ce ‘mporta se l’oste ar vino c’ha messo l’acqua” che si canta sguaiatamente mangiando porchetta alle fraschette di Ariccia. Parlo di una tradizione molto antica, costituita per la maggior parte da canzoni che i più giovani non conoscono nemmeno più e che negli ultimi decenni è stata lentamente lasciata morire. Una tradizione lasciata a se stessa perché fuori moda, forse, o perché l’animo romano è profondamente venato di malinconia, e la malinconia e la tristezza sono stati d’animo che bisogna far finta non esistano.
Fortunatamente, c’è chi la musica romana l’ha ripresa e con ottimi risultati. Il Muro del Canto è un complesso di musica popolare romana che si è impegnato a dare nuova vita alla cultura dello stornello. Lo ha rigenerato, ammodernato quel tanto che basta per rinvigorirlo senza stravolgerlo. La cosa, inizialmente, a me è apparsa un po’ strana non solo per la scelta coraggiosa e particolare del genere, ma anche perché il cantante del gruppo è Daniele Coccia, la voce dei Surgery, una band molto vicina all’industrial che con gli stornelli ha veramente poco da fare. Ma il vero animo da artista implica anche questo: il trovarsi a proprio agio con i generi più disparati.
Da poco è uscito il primo disco del Muro del Canto: L’AMMAZZASETTE. L’impatto del disco è stato tale che alla presentazione non sono nemmeno riuscita ad entrare nel locale perché c’era il pienone. Non faccio assolutamente fatica a capire come sia possibile che un gruppo così particolare, così di nicchia se vogliamo, abbia catturato così tanta gente. Al di là del fatto che Daniele Coccia scrive bene e canta benissimo (o viceversa?!), il resto della band è composto da musicisti che dal vivo trasmettono un’energia incredibile, loro attaccano a suonare, e chi li ascolta non può fare a meno di cantare e ballare, per poi fermarsi ad ascoltare rapito i brani che non vengono cantati, ma recitati da Alessandro Pieravanti. Le 16 canzoni del disco parlano di amori tristi, amori in cui il lieto fine non c’è, di relazioni che vanno avanti per forza di inerzia, in cui si corre il rischio di aspettare di arrivare ad odiarsi prima di staccare la spina. Per quanto ad un primo ascolto possa non sembrare così, la sofferenza degli amori finiti diventa cibo vitale che il buon Coccia metabolizza sotto forma di energia rigeneratrice e trasforma in comunicazione “forte”. D’altra parte, l’ora più buia è anche l’ora dei primi bagliori di speranza ed è così che in molti brani si percepisce una sensazione strana: il ricominciare a sorridere nonostante si abbiano ancora gli occhi gonfi di pianto. Il voler ballare ad occhi chiusi nonostante la rabbia ancora stritoli il cuore. Ma il Muro del Canto è un gruppo di musica romana, e questo implica il parlare strettamente di Roma e il lasciarsi andare a momenti di goliardica critica sociale. Perché, canta il Coccia, “chi si ferma, non è perduto: magari è stanco, disamorato”, ma – appunto – NON è perduto. E proprio perché non è perduto, anche le canzoni più tristi non sono pesanti, non avviliscono. Danno speranza.
Il grande merito del gruppo, relativamente al disco, è essenzialmente questo: il genere che suonano è particolarmente adatto al live e rischiava di perdere di energia ed emotività una volta registrato. Non è successo. Si canta e si balla comunque, si fanno proprie le parole che descrivono il nostro stesso vuoto. Bel disco, veramente molto bello: passionale, emozionante, comprensibile e assimilabile anche fuori dal Raccordo Anulare. In tutti i sensi.
Vi lascio “Ridi Pajaccio”, che è una canzone che mi piace particolarmente. L’audio non è il top ma rende l’idea…vi lascio anche il testo
Il Muro del Canto – Ridi Pajaccio
Ridi pajaccio/ porta da beve/ che la bellezza/ ch’ha detto no/ s’è fatta i conti/ e s’è detta smamma/ chi me l’ha fatto fa.
Ridi pajaccio/ porta ‘n bicchiere/ che a mezzanotte/ s’ha da brinda’/ su sta monnezza/ chiamata amore/ che oggi ce vò ammazza.
Come ‘na giostra/ gira ‘sto letto/ che era a du’piazze/ e ce sto da me/ m’era sembrato/ come ‘n ber sogno/ fatto da solo/ e fatto a metà.
Ridi pajaccio/ come ‘na vorta/ che se rideva/ senza pensa’/ s’è morto er papa/ se ne fa ‘n’artro/ pure se ‘n ce voi sta’.
Ridi pajaccio/ s’è fatto giorno/ e ‘r giorno c’aiuterà/ a vede’ chiaro/ sotto la scorza/ tutta la verità.
Ridi bojaccia/ facce ‘na croce/ perchè ‘sta vita/ è annata così/ mettete a letto/ e sogna de mejo/ vedrai che passerà.