Quando si parla di stragi tra le mura domestiche, della furia omicida che, apparentemente all’improvviso, esplode e porta una persona del gruppo familiare ad eliminare in maniera atroce gli altri componenti, tutti vanno con la mente ai casi di Novi Ligure, e, più indietro nel tempo, a Pietro Maso.
L’Italia, che dai tempi di Rina Fort, la belva di via San Gregorio, che nell’immediato dopoguerra eliminò la moglie e i figli dell’amante (la più piccola delle vittime fu eliminata nel seggiolone), non aveva registrato fatti di sangue della stessa efferatezza, il 14 novembre del 1975, un venerdì, scoprì che, a volte, il nemico è intimo.
A Vercelli, nebbiosa e sonnacchiosa città di provincia di poco più di 40mila abitanti, la mattina di quel giorno i tre dipendenti dell’officina di gommista di Sergio Graneris, rimasero meravigliati dal fatto di non trovare già aperto, dato che il titolare era sempre il primo ad arrivare.
Quando l’attesa si prolungò, il più giovane dei tre andò a casa di Maria Ogliaro, 67 anni, mamma di Graneris, che abitava poco distante dall’officina e l’avvisò del mancato arrivo del figlio. La donna, da poco rimasta vedova, sorpresa anche lei dall’inspiegabile ritardo del suo Sergio, telefonò a casa del figlio.
Dalla villetta di via Caduti dei lager, 9, però, nessuno sollevò la cornetta per rispondere.
Strano, visto che con Sergio Graneris, oltre alla moglie e al figlio tredicenne, abitavano anche i suoceri. Solo la figlia, Doretta, appena diciottenne, aveva deciso di andare a vivere fuori casa con il fidanzato, il 23enne Guido Badini, a Novara, da appena un mese. E tra una settimana, superate le incomprensioni con la famiglia di lei, che non avevano visto di buon occhio quel rapporto, si sarebbero sposati.
Maria Ogliaro decise allora di andare a casa del figlio. Percorse la strada col cuore in gola. I battiti le aumentarono all’impazzata quando vide la porta semiaperta. Salì i gradini che portavano in casa. E piombò nell’incubo. La televisione accesa, emetteva il caratteristico ronzio che accompagnava il telescopio (le televisioni commerciali con la programmazione mattutina erano ancora di là da venire).
Nel salone Sergio Graneris, era seduto a capotavola, con la testa reclinata all’indietro, gli occhi spalancati rivolti verso il soffitto e nella nuca i fori di due colpi di pistola. Alla sua sinistra, anche lui seduto, ma riverso sul tavolo, il suocero Romolo Zambon, anche lui freddato con un colpo alla nuca. Sotto il tavolo il cadavere di Margherita, moglie di Romolo.Provare a nascondersi e coprirsi la faccia con le mani non le era servito a nulla. Così come inutile era stato il disperato tentativo di Italia, moglie di Sergio, di accovacciarsi sotto il tavolo: chi aveva premuto il grilletto si era inginocchiato, aveva avuto il tempo di mirare e poi aveva sparato.
C’era anche il cadavere di Paolo Graneris, tredici anni. Riverso in un lago di sangue, con indosso il pigiama, braccia distese in avanti, il ragazzino aveva provato una fuga disperata e impossibile, volgendo le spalle all’assassino.
L’unica sopravvissuta della famiglia Graneris, Doretta, venne avvisata del massacro mentre era a fare la spesa in un mercato rionale di Novara. Quando i poliziotti della Mobile di Vercelli si presentarono, lei non mostrò alcuna emozione. Gli inquirenti compresero subito che la ragazza e il suo fidanzato, una persona profondamente insicura, che solo fino a qualche tempo prima aveva condiviso il lettone con la madre (la donna, prima di morire per un male incurabile, aveva pregato un amico del figlio di fare altrettanto per il “suo Guido”), nascondevano qualcosa.
Basterà poco a farli crollare. Ancora meno perché i due comincino a scambiarsi le accuse, cercando di scaricare la colpa l’uno sull’altro.
I fatti, secondo la ricostruzione processuale, videro entrambi ideatori ed esecutori della carneficina. La sera del 13 novembre 1975, Doretta Graneris e il fidanzato andarono da Novara a Vercelli in compagnia di una terza persona, Antonio D’Elia, che aveva già avuto precedenti per stupro, e che aveva avuto rapporti sessuali con la stessa Doretta, col consenso del Badini.I due fidanzati diabolici amavano infatti praticare sesso di gruppo. Inizialmente proprio D’Elia avrebbe dovuto compiere gli omicidi, ma alla fine accettò solo di fare da palo e da autista.
Badini, mentre i due complici effettuavano il furto di una Simca 1300 ad Arese, vicino Milano, noleggiò una Fiat 500 e la usò per raggiungere Doretta e Antonio D’Elia in un parcheggio nei pressi di Vercelli.
A bordo della Simca, i tre si diressero a casa dei genitori della ragazza, in via Caduti dei Lager 9: i Graneris accolsero i due giovani davanti alla tv, mentre D’Elia rimase fuori pronto alla fuga. Paolo, che era già a letto, sentendo arrivare la sorella e il futuro cognato si alzò e scese in cucina per salutarli.
Sergio e Italia Graneris discussero coi giovani per alcuni minuti di questioni legate al matrimonio (per la figlia avevano già comprato dei mobili).
Ma le parole furono presto sostituite dal rumore sordo dei diciotto colpi esplosi Fu Doretta Graneris la prima a confessare, dichiarando di avere ucciso i genitori con le proprie mani e scagionando il fidanzato.
Subito dopo cominciò lo scambio di accuse che si protrasse per tutto il processo.
Badini sostenne, infatti, di essere stato plagiato dalla fidanzata, che gli avrebbe prospettato una vita facile grazie ai beni dei genitori, valutati in 100 milioni di lire dell’epoca, di cui sarebbe rimasta unica erede.Durante le indagini emerse il profondo risentimento che Doretta nutriva nei confronti dei genitori – soprattutto della madre – dai quali si sentiva limitata e soffocata.
Basta leggere le carte processuali.
In udienza, la diciottenne vercellese confessò: “(mia madre, ndr) pretendeva vivessi la mia giovinezza come lei aveva vissuto la sua. Mi controllava, non sopportava che avessi la mia vita, si intrometteva sempre in tutto, aveva sempre da ridire”.
E ancora: “Casa e lavoro, lavoro e casa, televisione e dormire, in testa solo l’idea di fare soldi. Quelli non capivano che avevo idee diverse…”, disse riferendosi sempre ai genitori. Mentre vedeva se stessa così: “Non potrò mai intendermi con i miei. Io sono un’artista, gli artisti sono pazzi. Io doppiamente perché, punto primo, ci sono nata e perché, punto secondo, sono un’artista”.
Per i giudici l’unico seminfermo di mente fu però il D’Elia, che riuscì ad ottenere la seminfermità mentale, e che con le attenuanti fu condannato a ventidue anni di carcere. Per Doretta e Guido fu l’ergastolo.
Nel 1992 la Graneris, che in carcere aveva conseguito la laurea in architettura, ottenne la libertà condizionale. Oggi vive nella periferia di Torino, città dove è impegnata nel gruppo Abele di don Ciotti. I suoi familiari non l’hanno mai perdonata.
Antonio Murzio