18 gennaio 2013 Lascia un commento
Capitolo 4
"E tu, cara?" Egli le voltò rapidamente le spalle e cominciò a preparare altri due gin rosa.
C’era tra loro una tacita intesa che il "liquore aiutava": pur diventando più infelici ad ogni bicchiere, si spera sempre che arrivi il momento di sollievo.
"In realtà tu non hai voglia di sapere di me."
"Naturalmente ne ho voglia, cara. Com’è andata la tua giornata?"
"Ticki, perché sei così vile? Perché non mi dici che ogni speranza è svanita?"
"Svanita la speranza di che?"
"Tu sai cosa voglio dire: del mio viaggio. Da quando sei tornato non hai fatto che parlare e riparlare dell’Esperança. Arriva un battello portoghese ogni quindici giorni, e non ne parli così ogni volta. Non sono una bambina, Ticki. Perché non mi dici chiaramente: "Non è possibile?"."
Egli rise pieno di infelicità davanti al proprio bicchiere, facendoselo rigirare fra le mani perché l’angostura lasciasse il segno lungo la curva. Rispose: "Non sarebbe vero. Troverò qualche modo". Con riluttanza ricorse all’odiato nomignolo: se anche quello falliva, la loro infelicità sarebbe diventata più profonda e si sarebbe prolungata per tutta la breve notte di cui egli aveva bisogno per dormire. "Abbi fiducia nel tuo Ticki" disse. Era come se nel suo cervello un legamento si fosse teso in quell’attimo di sospensione. "Potessi almeno rimandare l’infelicità" pensò, "fino a che non sarà giorno." Nel buio l’infelicità è peggiore: non c’è niente da guardare eccetto le tende verdi da oscuramento, i mobili forniti dal governo, le formiche alate che battono le ali sopra la tavola; mentre a cento metri più in là i cani dei creoli abbaiano e guaiscono. "Guarda quella poveretta" disse indicando la lucertola di casa che a quell’ora veniva sempre fuori dal muro per dar la caccia alle farfalle notturne e alle blatte. Disse ancora: "Abbiamo formulato l’idea solo la notte scorsa. Queste cose richiedono tempo. Modo e mezzi, modo e mezzi" ripeté con forzata vivacità.
"Sei stato alla banca?"
"Sì" ammise lui.
"E non hai avuto il denaro?"
"No. Non hanno potuto darmelo. Prendi un altro gin tonic, cara?"
Essa gli porse il bicchiere piangendo silenziosamente. Quando piangeva, il viso le si arrossava tutto – sembrava più vecchia di dieci anni, una donna abbandonata di mezza età – e ciò era per lui come sentirsi sulla guancia il terribile alito del futuro. Si lasciò cadere su un ginocchio di fianco a lei e le portò alle labbra il gin rosa come se fosse medicina. "Mia cara" disse "un modo lo troverò. Bevi."
"Ticki, non posso più sopportare questo posto. So di averlo detto altre volte, ma questa volta lo dico proprio sul serio. Impazzirò. Ticki, sono così sola. Non ho un amico, Ticki."
"Invitiamo Wilson per domani."
"Ticki, per amor di Dio, non nominare sempre Wilson! Ti prego, ti prego, fà qualcosa."
"Ma certo. Solo pazienta un poco, cara. Queste cose richiedono tempo."
"Che cosa intendi fare, Ticki?"
"Sono pieno di idee, cara" rispose lui stancamente. (Che giornata aveva avuto.) "Lascia soltanto che riesca a coordinarle un poco."
"Dimmene una, almeno una."
Egli seguì con lo sguardo la lucertola che si lanciava sulla preda; poi tirò fuori l’ala di una formica dal suo gin e riprese a bere. Pensava tra sé e sé: "Che sciocco sono stato a non prender le cento sterline. Ho distrutto la lettera per niente; corso il rischio. Tanto valeva…".
Louise disse: "Lo so da anni: tu non mi vuoi bene". Essa parlava con calma; ma egli conosceva quella calma: significava solo che avevano raggiunto il centro quieto dell’uragano; in quella regione, a quel punto, essi cominciavano a dirsi la verità l’un l’altro. La verità, pensava lui, non era mai stata di aiuto a nessun essere umano, è una specie di simbolo che perseguono matematici e filosofi. Nelle relazioni umane gentilezze e menzogne valgono mille verità. Egli si tuffò in quella lotta che già conosceva vana per mantenere le menzogne.
"Non essere assurda, cara. Chi pensi che io ami se non amo te?"
"Tu non ami nessuno."
"È forse per questo ch’io ti tratto così male?" Cercò di mettere una nota leggera, che però risuonò falsa al suo orecchio.
"Lo fai per la tua coscienza" disse lei triste "per il tuo senso del dovere. Tu non hai più amato nessuno da quando Caterina morì."
"Eccetto me stesso, naturalmente. Dici sempre che amo me stesso."
"No, non credo che tu ti ami."
Egli si difendeva cercando di evadere: in questo centro ciclonico si sentiva impotente a dirle quelle menzogne che riuscivano a confortarla. "Tento sempre di farti felice. Lavoro duro proprio per questo."
"Ticki, tu non vuoi neppure dirmi che mi ami. Via dillo una volta."
Al di sopra del suo gin rosa, egli le diede uno sguardo amaro; eran la testimonianza visibile del suo fallimento, quella pelle resa giallastra dall’atabrina, quegli occhi arrossati dalle lacrime. Nessuno può impegnarsi ad amare per sempre; ma quattordici anni prima, a Ealing, durante quell’orribile, elegante, piccola cerimonia fra i pizzi e le candele accese, egli aveva silenziosamente giurato a se stesso di avere almeno sempre cura ch’essa fosse felice. "Ticki, io non ho altri che te, e tu hai… quasi tutto." La lucertola guizzò contro la parete e si fermò di nuovo con l’ala di una falena tra le mandibole da coccodrillo in miniatura. Le formiche alate davano piccoli tonfi contro il globo della luce elettrica.
"E tuttavia desideri andartene lontana da me" disse lui in tono di accusa.
"Sì" disse lei "so che anche tu non sei felice. Senza di me per lo meno sarai più in pace."
Ecco ciò di cui egli non teneva mai conto: la lucidità di osservazione di lei. Egli aveva quasi tutto, ma l’unica cosa di cui sentiva bisogno era la pace. Il suo tutto significava il lavoro, la quotidiana routine nel piccolo ufficio nudo, il cambiamento delle stagioni nel posto che amava. Quante volte era stato compatito per la durezza del suo lavoro, per la mancanza di soddisfazioni. Ma Louise lo conosceva meglio degli altri: se fosse tornato giovane, questa era la vita ch’egli avrebbe ancora scelta; solo, non avrebbe più preteso che un’altra persona la dividesse con lui: dividesse con lui il topo sul bordo della vasca da bagno, la lucertola sul muro, il vento che spalanca le finestre all’una di notte e l’ultima luce rosa sopra le strade di mattone, al tramonto.
"Stai dicendo delle sciocchezze, cara" disse, e si mise ad eseguire i gesti fatalmente meccanici per preparare altri gin tonic. il nervo si tese ancora nella sua testa; l’infelicità si era svegliata e perseguiva anch’essa la sua inevitabile routine: prima l’infelicità di lei e gli sforzi di lui diretti a lasciar tutto non detto; poi da parte di lei quelle calme veritiere dichiarazioni, su cui sarebbe stato tanto meglio passar sopra, ed infine la perdita di controllo da parte di lui: le verità ch’egli le scagliava contro, come se essa fosse sua nemica. Mentre s’imbarcava in quest’ultima frase, gridandole improvvisamente e sinceramente, mentre l’angostura gli tremava fra le mani, "Tu non puoi darmi pace", egli già sapeva ciò che sarebbe seguito: la riconciliazione e le facili bugie fino alla prossima scenata.
"È ciò che dico io," replicò lei "se me ne vado, avrai la tua pace."
"Tu non hai la minima idea" l’accusò lui rabbiosamente "di ciò che significhi pace." Era come se Louise avesse parlato in modo offensivo di una donna da lui amata. Perché egli la sognava, la pace, giorno e notte. Una volta nel sonno gli era apparsa come la grande splendente spalla della luna che si sollevava passando davanti alla sua finestra simile a un iceberg, artica e distruggitrice, il momento prima che il mondo fosse colpito; di giorno cercava di conquistare pochi momenti della sua compagnia, quando se ne stava, curvo sotto le manette arrugginite nel suo ufficio chiuso a chiave, a leggere i rapporti dei posti di polizia da lui dipendenti. Pace, gli sembrava la più bella parola che esistesse nella lingua umana: "Vi lascio la pace, vi do la Mia pace. O Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace". Durante la messa, si premeva le dita contro gli occhi per impedire che ne scorressero le lacrime della brama.
Louise disse con l’antica tenerezza: "Povero caro, vorresti che io fossi morta come Caterina. Tu hai bisogno di star solo".
Egli rispose ostinatamente: "Io ho bisogno che tu sia felice".
Lei disse, stanca: "Dimmi soltanto che mi vuoi bene. Mi aiuta un poco". Il peggio era passato; erano arrivati nella fase calante della scenata. Egli pensò con fredda calma: "Questa volta non è andata così male; stanotte riusciremo a dormire". Disse: "Naturalmente ti voglio bene, cara. Riuscirò ad organizzarti il viaggio. Vedrai".
E avrebbe fatto quella promessa, anche se avesse potuto prevedere tutto ciò che ne sarebbe venuto. Era sempre stato pronto ad assumersi la responsabilità delle sue azioni, ed aveva sempre intuito, dal momento in cui aveva fatto quel terribile voto personale per la felicità di lei, quanto lontano l’avrebbe condotto questo suo voto. La disperazione è il prezzo che si paga per essersi proposti una meta che non si può umanamente raggiungere. È, così almeno si dice, il peccato irremissibile; ma è un peccato che il corrotto e il malvagio non perpetra mai. Costui spera sempre, non raggiunge mai il gelo della consapevolezza di essere totalmente fallito. Solo l’uomo di buona volontà si porta sempre in cuore questa capacità di dannazione.