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Quella eseguita dalla Archibugi e da Piccolo, rispetto a quella compiuta da Luca Miniero, è un'operazione che tuttavia ha richiesto decisamente una minore invadenza sotto l'aspetto di alterazione e di riscrittura della sceneggiatura. Lo scheletro della loro pellicola infatti resta pressappoco identico a quello che conoscevamo (anche nei dialoghi), se non fosse per l'inserimento di flashback legati alla vita adolescenziale dei protagonisti e un finale leggermente allungato, se paragonato alla versione cinematografica di qualche anno fa. Per il resto, ogni cosa mantiene esattamente il suo posto: l'amichevole cena di rimpatriata come campo di battaglia, la scansione rigorosa della scaletta, la caratterizzazione dei personaggi e la miccia cardine, responsabile delle esplosioni successive, affidata ancora una volta al nome che il personaggio, qui affidato ad Alessandro Gassmann, ha deciso di affibbiare al futuro figlio nascente: un nome talmente estremo da mandare su tutte le furie i presenti perché in netta contrapposizione con le vedute politiche della famiglia cui appartiene (ma non solo) e di cui si è sempre sentito pecora nera. Se si prendono qualche libertà, dunque, la Archibugi e Piccolo, lo fanno esclusivamente per modernizzare alcuni comportamenti (o vezzi) che secondo loro - in questa (breve) manciata di tempo passato - hanno contribuito a variare altre sfumature della nostra società, che questa sia limitata solo al modello italiano o a quello generico europeo/mondiale.
Mantiene perciò gli stessi pregi che erano stati riconosciuti in precedenza al suo cuginetto maggiore "Il Nome Del Figlio", aumentando forse un tantino i difetti, ma senza risultare mai sbagliato o stucchevole nei suoi intenti. Lo scopo è ancora quello di smontare le apparenze e le convinzioni politiche, sociologiche e personali dell'essere umano, per ridurlo ai minimi termini e privarlo di quelle armature o sovrastrutture che spesso utilizza per migliorarsi, difendersi o apparire diverso (migliore?). Un lavoro che il cast scelto dalla Archibugi riesce a mettere in pratica con grande convinzione e devozione, concedendosi a qualche sbavatura, così come a qualche grande momento robusto ed emozionante (la scena con la canzone di Lucio Dalla è senza dubbio il punto più alto). Forza incontrollabile, chiaramente, di un soggetto meccanicamente collaudato che finché in condizioni di vantare la sua anima originale è destinato a non perdere mai del tutto la sua potenza, a prescindere da come questa possa venire masticata e sputata.
Chiedersi i motivi però che spingano ad andare a saccheggiare materiale preesistente, anziché andarlo a creare di sana pianta, è una domanda che sorge naturale e al quale bisognerebbe trovare valida giustificazione. Sarebbe crudele pensare che nel nostro paese non ci sia più nulla di qualitativamente valido e inedito da poter raccontare, a parte le solite commedie a basso profilo. Anche perché per quanto uno possa sforzarsi, alla fine, copiando gli altri difficilmente sarà possibile raggiungere dei risultati eccellenti o superiori alla fonte.
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