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Il nostro parto

Da Teresa Laviola @TeresaLaviola

Il nostro parto

"Nascita, vita e morte"   Carlo Margiotti

Donna e mamma di quattro bimbi non posso non ricordare la meravigliosa esperienza del parto di ciascuno di loro. 
Lessi a quel tempo il libro di Ina May Gaskin “La gioia del parto” e mi resi conto che la mia esperienza, così profonda dell’avvenimento del “dare alla luce” mi accomunava a tante donne che avevano apprezzato in libertà e con poca, o addirittura assenza di medicalizzazione, la nascita del loro bambino. 
Mi sono venute alla mente le donne appartenenti a civiltà selvagge o le nostre nonne e bisnonne che affrontavano con molta più naturalezza quella che oggi delle volte è considerata (per fortuna sempre meno) un’esperienza terribile. 
Ho riflettuto sul fatto che sia necessario offrire a noi donne la possibilità di “lasciar parlare il nostro corpo” che non è un’entità distinta dalla nostra mente; per dirla alla Ina May: “lasciate venir fuori la scimmia che è in voi!”. 
Molto interessanti, a tal proposito, le considerazioni di George Engelmann in Laboramong Primitive quando guardava le donne nell’ultima fase del travaglio e inizialmente le induceva e conduceva ad assumere posizioni particolari o le invitava a calmarsi imparando poi ad osservare “la loro apparente agitazione sotto un’altra luce” dando loro così la possibilità di partorire seguendo istintivamente il “ritmo del loro corpo”: le educava quindi a soffrire meno e a vivere con più consapevolezza e abbandono l’esperienza del parto, ad avere fiducia nella loro “naturale capacità” di saper mettere alla luce un figlio lasciandosi trasportare dalla “danza” del corpo. 
Il mio pensiero viaggia e si spinge fino alle isole Polinesiane (senza nulla togliere al nostro meraviglioso mare) nelle quali nacque la danza Hula, propiziatrice di fertilità che tanto mi fa riflettere sulla possibilità che abbiamo di fare silenzio in noi stessi e di ascoltare il ritmo del nostro spirito e del nostro corpo che ci accompagna alla nascita di “un altro noi stessi”. Le popolazioni cosiddette selvagge possedevano e posseggono una fortissima comunione con il loro corpo e con la natura tutta. 
Tali danze, nate nelle isole polinesiane, venivano compiute “in riva al mare o nelle foreste dalla vegetazione verdissima, umida e rigogliosa che le donne eseguivano agghindate con ghirlande di fiori bellissimi e profumati chiamate ’lei’.” La protettrice dei danzatori della Hula è la Dea Laka, dea dell’abbondanza, delle danze ma anche dei canti. Il mito narra che Laka fosse una giovane e affascinante ragazza hawaiana di cui Lono, dio della terra e dell’agricoltura, sceso in terra, si innamorò, sposandola e facendola divenire anch’essa una dea, trasformandola e cambiandola meravigliosamente da umana a divina. Tale danza si esprime nella mobilitazione di tutto il nostro corpo, concentrandosi sul movimento del bacino, delle braccia e delle mani, come l’espressione del parto di un figlio. Assieme al corpo è il nostro spirito che si muove, che muta: dall’esperienza del dolore, attraverso il travaglio delle nostre notti buie, ci aspetta la  rinascita, dalle ferite del nostro parto, la vita, ed è così che per uomini e per donne partorienti si rivela una nuova possibilità nella vita, nelle coppie, nelle famiglie. Il travaglio di un tempo, o di un periodo, non può spezzare l’incanto su ciò che sapremo “dare alla luce”, supportati, aiutati, ma liberi di tirar fuori tutte le nostre energie, le nostre capacità di cambiamento. Riusciremo a trovare la nostra strada per “far emergere il bambino che è in noi” scevri da medicalizzazioni di ogni possibile malattia che ci dice sottovoce: “non ce la farai mai”.

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