L’autobus giallo, il numero 97, rientrò al deposito a fine turno a mezzanotte e 25. Fu solo allora che ci si accorse del cadavere scivolato fra i sedili. Che fosse cadavere era abbastanza evidente, tuttavia lo accertarono quelli del 118 arrivati con l’ambulanza, e subito dopo arrivò anche la gazzella dei carabinieri, chiamata così, per sicurezza.
Il conducente, interrogato, non aveva molto da dire. Era stata una corsa normale, pochi i passeggeri, nessun inconveniente. Dal capolinea era partito vuoto, di questo era sicuro. Lungo il tragitto aveva imbarcato qualche persona per lo più diretta dal centro verso la periferia, come sempre il sabato sera a quell’ora. Un gruppetto di ragazzi, saliti tutti insieme e probabilmente di ritorno da una festicciola, aveva fatto un po’ di chiasso con una chitarra e un mangianastri che passava roba di quei tipi nuovi, quegli inglesi con la frangiona, i bitols, i bitles, insomma quelli lì, i capelloni del momento.
“Ubriachi? – chiese il commissario.
“Forse di Fanta – rispose l’autista, che in trent’anni di servizio aveva visto di tutto succedere sugli autobus, dalle risse ai flirt, dagli scippi ai parti prematuri. Anche qualche morto, aveva visto, ma finora sempre per cause naturali. Questa era la prima volta che aveva trasportato, a sua insaputa, un corpo esanime trafitto da qualcosa di così appuntito da provocargli, come ipotizzarono i paramedici e confermò più tardi il perito autoptico, un’emorragia interna letale.
La scientifica fece i suoi rilievi e non trovò nulla di interessante. La solita sporcizia dei mezzi pubblici, cartacce, gomme appiccicate, resti di merendine. Impronte ce n’erano a iosa, tutte sovrapposte e illeggibili. Il cadavere apparteneva a un uomo presumibilmente fra i 40 e i 50 anni, di proporzioni, peso e lineamenti del tutto comuni. Gli indumenti erano comuni anch’essi, forse un po’ sgualciti, e le tasche risultarono vuote: né documenti né foto o lettere. L’igiene personale appariva discretamente curata, la dentatura era sana e non rivelava alcun pregresso intervento odontoiatrico, la barba non aveva più di tre giorni; sul corpo, nessun anello o medaglietta, nessuna cicatrice chirurgica o tatuaggio o segno particolare. Solo quel forellino netto che trapassava il cappotto, la giacca, la camicia, la canottiera e infine la milza, e che ne aveva provocato il progressivo collasso per dissanguamento.
“Possono esserci volute anche ore prima che crollasse – disse il medico legale – Anzi forse non si è nemmeno accorto di essere stato ferito e può aver camminato a lungo finché non ha avvertito i sintomi dello shock emorragico”.
“L’arma? – chiese laconico il commissario.
“Qualcosa di appuntito e sottile. Direi un cacciavite a stella da elettrotecnico”.
“Grazie Matteo”.
“Figurati Gianni, e buon lavoro”.
Furono convocati i familiari di alcune persone scomparse. Tra i primi si presentò una vecchina che da mesi cercava suo figlio, un mascalzone che viveva alle sue spalle ma alla cui perdita non si rassegnava.
“Eppure… – mormorò dopo alcuni istanti.
“Si faccia coraggio, signora Matilde, e lo guardi ancora. Ė lui?”
“Posso solo dirle che non è mio figlio, grazie a Dio, eppure mi ricorda qualcuno”. Qualcuno che aveva visto la settimana prima, non avrebbe saputo dire esattamente quando, perché lei al cimitero ci andava tutti i giorni. Lo aveva visto là, una mattina presto, quando per i viali non c’era ancora nessuno, e lo aveva notato per via di quella cosa strana che stava facendo.
“Si era tirato su le maniche della camicia e si stava lavando viso e braccia alla fontanella, capisce? E poi si è arrotolato i pantaloni e si è lavato anche i piedi. Alla fontanella. Serio e tranquillo come fosse nel bagno di casa sua. Io mi sono girata dall’altra parte e ho fatto finta di niente per non metterlo in imbarazzo. E inoltre ho le cataratte, quindi non mi sentirei di giurare che fosse proprio lui. Però me lo ricorda. Un barbone? Non direi affatto: sembrava un signore distinto, magari un po’ dimesso, ma distinto, ecco”.
Indagini lungo il percorso del 97, foto diramate in tutti i commissariati della città, della provincia, della regione, del Paese, ricerche negli ambienti degli emarginati e degli informatori, nulla aiutò a chiarire il caso. Lo sconosciuto rimase tale. Un uomo qualunque in buona salute, senza vizi rilevabili dagli esami di laboratorio, senza corrispondenze nei registri dei sospetti, dei pregiudicati, degli scomparsi. L’unica traccia, la testimonianza poco attendibile, di fatto quasi ritrattata, della vecchia signora. Il commissario ne tenne conto anche quando il direttore lo esortò a non perdere altro tempo su quel caso e a tornare piuttosto a occuparsi di omicidi più illustri.
Il sabato successivo, fuori servizio, prese l’ultima corsa del 97, e ripercorse il tragitto dello sconosciuto. attraverso tutta la città, da una periferia all’altra, costeggiando quartieri di ogni tipo, negozi, scuole, cinematografi, palazzine residenziali. Guardava accigliato dai finestrini, in attesa di un’intuizione che non venne.
A letto, nel buio della stanza rigato dai riflessi giallastri dell’insegna di fronte che filtravano fra le stecche delle tapparelle, pensava al suo uomo. Lo vedeva vagabondare per le strade, attraversando piazze, rasentando palazzi grigi, a caso, come uno sceso da un treno alla stazione sbagliata e senza soldi per comprare un altro biglietto. A casa aveva lasciato un lavoro fallito, una moglie assente, nessun vero amico; casomai fastidio, ostilità, rancori, o più di tutto indifferenza. A un uomo così non servivano più i documenti, né un orologio da polso o un portafogli con le foto dei cari, né un indirizzo, delle chiavi, un posto dove tornare ogni sera. Eccolo che vaga incerto, è nuovo del mestiere, non sa come si faccia a diventare un vero barbone, capisce solo che non succede tutto d’un tratto, che ci vuole volontà, la volontà di abbrutirsi, e la perseveranza. Ė ancora agli inizi, ancora indietro per imparare come si deve saper rinunciare allo spazzolino, al rasoio, alla doccia, come si allestisce un giaciglio tra due cassonetti per coricarsi all’aperto. Forse non è ancora pronto ad abbandonare del tutto la sua dignità. Tentenna, si sta testando, ci arriverà per gradi, passando attraverso la fame e l’accattonaggio che ne sarà l’obbligata conseguenza. Eccolo che si fa sera e non ha ancora mendicato, ha tenuto duro, ma ora ha le ossa stanche e i piedi dolgono. Non si sente all’altezza di accostare quelli come lui, le colonie di reietti che si sono organizzati a dormire sui cartoni, nei cunicoli, nei caseggiati in demolizione. Per stanotte, per qualche notte, cercherà un altro genere di riparo, più discreto, più appartato.
Questi qui dovevano essere piuttosto ricchi e orgogliosi del loro nome se si sono fatti costruire una cappella così ornata. Ha perfino una porta con i vetri fumé, e dentro è una stanzetta di marmo col soffitto a cupola e targhe bronzee alle pareti. Sul pavimento in mosaico, lapidi lisce con svolazzi in oro brunito. Ai quattro angoli, colonnine corinzie reggono trofei di fiori finti. Ma dalle fessure il vento di molti inverni ha soffiato dentro foglie secche e marciume, e le corone d’alloro di plastica sono completamente stinte. Una tomba di famiglia abbandonata nella zona più remota e antica del cimitero, tra altre muschiose dimore eterne di gente che nessuno ricorda neanche più.
Lo sconosciuto trova legittimo prenderne una in prestito per qualche notte. Dormirà al coperto, raggomitolato nel cappotto. Potrà comunque lavarsi alla fontanella, domattina, finché non si sarà abituato a farne a meno. Ed ecco che la seconda sera, non molto più barbone del giorno prima malgrado abbia rimediato mezzo panino sotto una panchina al parco, porta nella nuova casa provvisoria due sacchi di iuta e una coperta raccattati tra i rifiuti nel pressi del mercato. Appende con cura il cappotto a una torcia di rame perché non si stropicci troppo, si prepara il letto, si stende, riesce persino ad addormentarsi senza più pensare a quanto gli piacerebbe radersi.
Il commissario legge dei fogli senza trattenere una sola parola. Ė sicuro che un sopralluogo al cimitero gli permetterebbe di trovare quella cappella e le prove del passaggio del suo uomo. Ma non ne ha parlato con nessuno, e non sa se vuole veramente farlo. Il suo uomo si stava nascondendo, non da qualcuno, non dalla giustizia, ma da se stesso. Stava imparando a perdersi, era questo il suo desiderio. Voleva solo essere libero, libero di non esistere per chi lo aveva già comunque rinnegato. Poi, una sera, all’imbrunire, un altro disgraziato incalzato dal freddo era penetrato nella cappella, lo aveva minacciato per rubargli il posto, quel miserabile riparo tra le ossa dei morti e l’umido dei cipressi. Lui si era difeso, forse gli aveva proposto una temporanea coabitazione, perché era un uomo civile e non aveva ancora imparato la legge della giungla. Ma l’altro era un topo della notte, un randagio incattivito e irragionevole, e dal fondo dei suoi stracci aveva estratto un cacciavite – a stella, sottile, da elettrotecnico – colpendolo fulmineo a un fianco prima di fuggire. L’uomo senza nome non aveva sentito l’arma penetrargli nel corpo. Il freddo e lo shock avevano attutito il colpo. Era rimasto raggomitolato nell’angolo, incredulo e ansimante. Quando, dopo parecchio, aveva cercato di rialzarsi, si era sentito strano, molto debole. La fredda aria notturna non riuscì a rianimarlo. Sto male, pensò. Mi starà venendo un infarto. Devo cercare qualcuno che mi aiuti.
L’autobus giallo era in arrivo carico di luci, che alla sua vista appannata si confondevano in aloni multicolori. Accostare la scala al muro di cinta, salirvi e poi lasciarsi cadere al di là era stato puro e primitivo istinto di sopravvivenza. Ora quell’autobus lo avrebbe portato da qualche parte, dove c’era gente, un pronto soccorso, ossigeno, medicine, salvezza. Quei ragazzi così allegri, così vivi. Cantavano, erano sgraziati e eccitati come gli storni sui campanili. Se avesse avuto ancora un minimo di fiato, un barlume di lucidità, un’ultima goccia di sangue nelle vene, avrebbe potuto ancora chiedere aiuto a loro.
Il commissario non voleva sapere altro. Non gli interessava un colpevole a tutti i costi: avrebbe significato scoperchiare fatti troppo privati, aprire ferite, confondere idee, e soprattutto mandare in prima pagina un uomo che non voleva più avere una storia. Omicidio di ignoto a opera di sconosciuti.
Caso archiviato.
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Il Giallo non è propriamente il mio genere letterario, ma è quanto richiesto dall’eds della Donna Camèl, e chi sono io per obiettare? Quindi mi adeguo come posso, aggiungendomi ad altri che certamente faranno meglio, come
- Dario con [condomini emiliani] Bitols