Il numero della Bestia
di Iannozzi Giuseppe
I am the one, Orgasmatron, the outstretched grasping hand
My image is of agony, my servants rape the land
Obsequious and arrogant, clandestine and vain
Two thousand years of misery, of torture in my name
Hypocrisy made paramount, paranoia the law
My name is called religion, sadistic, sacred whore.
Orgasmatron (1986), Motorhead
Chi pensa che questo mondo sia sotto la sferza del Bene è in ragionevole torto.
Quella che voi chiamate umanità altro non è che il seme sparso in Terra dalla Bestia.
Non c’è alcunché di divino nell’uomo. Però è vero che l’umanità è a immagine e somiglianza di chi l’ha creata. Ma non di Dio, per il semplice fatto che un dio buono non è mai esistito. E Cristo non è mai esistito, o meglio è venuto come dicono le Scritture ed è morto in croce sul Golgota. Se nascesse oggi un tipo così, sicuro è che finirebbe rinchiuso in un manicomio criminale per il resto dei suoi giorni. Nel più fortunato dei casi sarebbe un serial killer al pari di Charlie Manson. A ben pensarci, se solo l’uomo sapesse guardare bene nel buio del suo cervello, capirebbe che la Storia ha visto l’ascesa di tanti poveri cristi: Nerone, Alessandro Magno, Napoleone, Hitler, Mussolini, Stalin, Charles Manson, e tanti altri ancora. Chi oggi si illude che quel Cristo condannato all’eterna prigione dei Vangeli sia stato un agnello, si sbaglia di grosso.
Dopo questa breve ma necessaria premessa, posso accingermi a raccontare quel Martedì 13 che diede inizio al conto alla rovescia.
Era il 13, un martedì per l’appunto.
Il crepuscolo si era appena disegnato sul confine d’asfalto bollente della città di cemento.
Alti casamenti in stile littorio graffiavano a sangue il cielo.
In strada ancora l’eco delle ambulanze insieme al vento caldo, soffocante.
Erano giorni che non pioveva. La temperatura a Milano aveva sfiorato i 45 gradi. I vecchi più deboli ci avevano rimesso le penne. Non era servito a nulla raccomandare loro di starsene tappati in casa, di non uscire con il sole di Mezzogiorno. Ne erano morti più di cento in un solo giorno. Una fitta secca in mezzo al petto, come un dardo di fuoco, un singulto vomitato nel silenzio assordante della metropoli e per loro ogni cosa era finita.
Era una serata calda, 37 gradi almeno.
Rinfrescavo la gola con del whisky. Più ne buttavo giù, più sentivo crescere l’avidità di averne dell’altro. Il barista, un ometto calvo e ridicolo, inutilmente si nettava la fronte madida di sudore, cercando di sistemare il riporto sulla testa bagnata. La faccia arrossata pareva una vescica pronta a esplodere. Gli ordinai un altro whisky liscio. Non fiatò. Versò nel bicchiere e non mi rivolse una parola, solo uno sguardo: non aveva mai visto uno come me, lucido dopo dieci bicchieri, fresco come una rosa, senza una sola lacrima di sudore sulla pelle bianca d’avorio, perfetta da far invidia a Proserpina. Un travestito con il trucco sfatto mi puntava già da un po’. Era appollaiato sullo sgabello, tenendo le gambe nude bene in vista, lasciando che il sudore gli scivolasse lungo l’insenatura delle tette di silicone. Doveva essere stato un gran pezzo di maschio prima che si rovinasse a quel modo: alto sull’uno e ottanta, ossatura massiccia, zigomi rudi che la chirurgia plastica non era riuscita a rendere più gentili… Sì, prima che diventasse la porcheria che avevo accanto doveva essere stato un marcantonio da far mordere le labbra a più di una puttanella. Chissà che cazzo gli era passato per la testa per rovinarsi a quel modo. Nonostante il caldo mi faceva il filo.
“Vuoi?”
Gli sorrido né benevolo né altro. Lo ferisco con un sorriso enigmatico.
Comunque due minuti dopo siamo fuori insieme.
Rientro.
Il barista è più morto che vivo. Gli faccio segno di versarmene un altro.
Lui mi mette la bottiglia sotto il naso, farfuglia qualcosa, poi se ne va nettandosi il sudore con il dorso della manica della camicia lercia, bagnata di sudore, incollata come carta moschicida sul corpo flaccido.
“Non è ancora l’ora”, gli dico sottovoce. “Non è ancora l’ora… pago io per il mio amichetto”.
Scuote piano la testa in lontananza. Non si chiede neanche che fine abbia fatto il transessuale né gliene frega qualcosa.
Verso nel bicchiere una generosa dose: viene che è una bellezza, sembra crema di whisky. Bianco latte, come sperma. E’ rinfrescante. Lo butto giù e torno a riempire il bicchiere un’altra e un’altra volta. Fuori è buio, ma l’afa è un muro che ti viene addosso. In questa cazzo di Milano di cemento, di asfalto, di figli di puttana, si può solo soffocare in silenzio.
La tivù si accende. Passano immagini. Una mezzobusto fa la cronaca dei morti e dei piccioni straziati in piazza del Duomo. Il sindaco ha dichiarato lo stato di calamità naturale. L’elettricità è mancata per mezza giornata. La gente è uscita di casa in preda al panico, sotto il sole cocente, boccheggiando.
Al posto del travestito adesso c’è una puttanaccia di mezza età. Non sembra che il caldo le dia troppo fastidio. Ne avrà viste di tutti i colori nella vita, non sarà un po’ di caldo a toglierle l’appetito. Mi sorride per pura formalità, non ha intenzione di caricarmi, glielo si legge negli occhi.
“Quando attacchi?”
“Non è che abbia tutta questa urgenza.”
Annuisco.
“Posso mettermi a riposo quando mi piace.”
“Sono i privilegi del mestiere.”
Lei fa un cenno con la testa spargendo nell’aria puzza di lacca.
“Hai due occhi… Belli.”
“Dicono così. Due occhi da diavolo.”
La puttana si guarda intorno in cerca del barista.
“Adesso arriva. Sarà nel retro a spararsi una sega.”
“Le battute non ti riescono bene.”
“Non si può essere bravi in tutto. Tu preferisci le pentole o i coperchi?”
Questa volta accenna un mezzo sorriso.
“Quel figlio di buona donna, dove cazzo si è cacciato nessuno lo sa!”
“Adesso arriva.” E arriva, sempre sudato. Saluta. Si vede che la conosce. Le mette sotto il naso una manciata di salatini e un bicchiere.
“Dammi quello che ha preso lui”, ordina. Il barista non fa una piega. Le sbatte sotto il muso una bottiglia di whisky. Lei gliela punta contro: “Ti sembra che ti ho chiesto questa merda?”
Alzo la mia bottiglia, gliela faccio vedere. Il barista strabuzza gli occhi, non capisce.
“Quella roba noi non la teniamo.”
“Allora se l’è portata da casa…”
“Non ce l’abbiamo, Candy. O questo o niente.”
“Accetta!”, le suggerisco in un sussurro pietroso. “Quello che bevo io lui non ce l’ha”.
Scoppio a ridere.
Un brivido freddo corre lungo la schiena del barista. Lo avverto.
Candy prende la bottiglia: “Ti è andata bene per questa volta, vecchio porco”.
“Sei una tosta…”
“Non sarei mai arrivata ai cinquanta con il mestiere che faccio se non fossi un osso duro.”
“La vita è la vita”, dichiaro solennemente. “Domani sarà un giorno migliore.”
“O peggiore”, fa lei di rimando.
“O peggiore”, confermo io. “Domani nessuno lo sa se saremo ancora qui.”
“Proprio così.”
“Che fai stasera?”
“Non mi sembra una proposta…”
“Non lo è. Era giusto per sapere. Quei tuoi occhi non mi convincono.”
Capisco che ce l’ha un po’ di paura. Non lo vuole dare a vedere, ma con me non si può barare.
Mi avvicino a Candy con lo sgabello. Le sussurro in un orecchio: “Aspetto!”
La puttana ride sguaiata. Adesso ha paura, un po’ di più. “Chi aspetti?”
“Chi? Piuttosto: che cosa… Aspetto. Te l’ho detto.”
Le circondo la vita con un braccio. Scendo in basso con la mano. La faccio scivolare sotto la gonna, sotto le sue chiappe sode nonostante l’età. Le ficco a secco due dita su per l’ano. Lei sobbalza. Spingo di più. Spingo finché non sento che sta venendo.
E viene. La sua topa è bella bagnata. Non era mai venuta così, per Dio.
E’ una gran puttana, una vera puttana, non come le fringuelle di oggi, frigide, strafatte di droga.
Tiro fuori le dita. Sono sporche della sua merda. Me le caccio in bocca, simulando che siano un grosso membro. Le lecco fino alla radice. Poi ripeto l’operazione, ma in bocca a Candy. Le piace succhiarmele, c’è la sua merda sopra. Le piace, porco mondo, le piace un casino!
“Pippo, noi usciamo a prendere una boccata d’aria!”
Pippo, il barista, nemmeno si degnò di dar un qualche segno di vita.
“In arte sono Candy. Mi chiamo Teresa. Con un nome così non fai molta strada.”
“Perché siamo usciti?”, osservo con un ghigno sul pelo delle labbra.
“Prima o poi… meglio prima.”
“La notte.”
Eravamo in un vicolo. Il bar era uno di quelli di quart’ordine, come i suoi avventori. Uscivi e uscivi su di un vicolo, tra cassonetti d’immondizia e randagi rabbiosi.
“Non c’era la mia amica stasera…”
“Chi è… la tua amica?”
“Credo tu l’abbia conosciuta. Non è una di quelle che passano inosservate.”
“Allora sì, l’ho conosciuta. Non era un granché.”
Un randagio uscì allo scoperto da dietro un cumulo di sacchi neri pieni: in bocca teneva qualcosa di sanguinolento. Al buio poteva sembrare una salsiccia.
“Credo che sia partita per un lungo viaggio. Qualche volta lo diceva che… Be’, se avesse avuto soldi in abbondanza il suo sogno era di andare a battere dalle parti di Broadway.”
“Un sogno da quattro lire. Secondo me ci è andata vicino.”
“Sì, lo penso anch’io.”
Mi accesi un sigaro cubano. “Sono i migliori. Peccato per Fidel.”
“Che ha quel cane?”
“Sembra che la cena gli sia andata storta. Si muove come se avesse il mal di pancia.”
“Poverino!”
“Se la caverà, dopo una bella cagata. Non gli serve altro.”
Rimbalzai dentro.
“Pippo, un digestivo!”
“Non ha mangiato niente…”
“Ho mangiato”, ribattei sbattendogli in faccia un sorriso sinistro. “La signora è andata. Pago io per lei.”
“Come vuole.”
“Un digestivo buono, non roba per fighette, intesi?”
“Ho quello che fa per lei… so cosa le serve, per il diavolo!” E si cacciò nel retrobottega.
Quando tornò teneva in mano, come fosse un feto, una bottiglia rosso sangue, senza etichetta: “Questo è un prodotto della casa. Ci passano in pochi qui, ma anche noi, nel nostro piccolo, sappiamo soddisfare il cliente più esigente.”
“Capisco”, dissi per niente turbato. “E di clienti esigenti, quanti?”
“Pochi. Gliel’ho detto. Pochi davvero. Lei è il primo.”
Teneva un tono di voce atono, solo un po’ metallico. “A dire il vero questo aperitivo l’abbiamo preparato apposta per lei.”
“Quale onore!”, osservai sarcastico. “E perché mai?”
“Io qui sono a lavoro, non mi impiccio. Il proprietario di questo posto ha detto di darlo solo a lei. Ha anche detto che non avrei avuto dubbi sulla sua identità.”
“Dovresti riposare, non hai una bella cera.”
Ghermii la bottiglia e presi a bere in maniera oscena, come se stessi staccando un pompino.
Poi soddisfatto e in pace con lo stomaco cachinnai, con ferocità sanguigna.
Quello si fece fiacco fiacco, più bianco di una vergine sodomizzata. “Non ti preoccupare, non è il tuo momento. Non ancora. Vivrai abbastanza a lungo per vedere l’Inferno.”
“L’Inferno. Sì, ero stato avvertito…” Lasciò la frase a metà, cercando invano di deglutire, quasi soffocando.
“L’Inferno. E’ là fuori. Non te ne sei accorto?”
“Fa caldo di questi tempi a Milano.”
“Vero. Un caldo bestiale. La gente muore come le mosche. Sono fortunati a morire così… E’ così naturale che gli individui più deboli rendano l’anima al Diavolo…”
“Sono… Cioè, erano i più indifesi…”
“Ma non i più innocenti. Poco prima che entrassi qui ha tirato le cuoia un vecchiaccio proprio davanti ai miei piedi. Negli anni Cinquanta, dopo la guerra, aveva cominciato a fare soldi. Era giovane allora. Ha investito nel mercato edilizio, casermoni di cemento e amianto, un unico impasto. Però lui s’è fatto la villa in Sardegna. Si è sposato. Ha avuto una figlia. La toccava. E’ cresciuta e ha tenuto tutto dentro di sé. Si è sposata. Ha avuta una figlia. Di punto in bianco scoprì d’essere nonno. Come nonno amava molto la nipotina. Molto.”
Pippo inghiottì, a vuoto.
“Non è una bella città Milano. Nessuna città lo è. L’umanità è senza dio. Questo te l’ha detto il tuo padrone?”
Il barista biasciò un sì. Il riporto sulla testa calva gli si sciolse in uno schiaffo unto sulla faccia.
“Dovrebbe riposare, sul serio. La notte è ancora lunga…”
Lasciai i soldi sul bancone, per me, per il travestito, per Candy. E per il digestivo. “Non ti è andata poi male per una serata di merda come questa”. E così dicendo alzai i tacchi sul serio, uscii sul vicolo. In un tombino incrostato e rugginoso un rivolo di sangue lacrimava dentro. C’era odore di merda appena staccata. Un forte tanfo. Ma di più la musica a tutto volume appestava la notte: i New York Dolls, “I gotta run, I cant look back/ I gotta get back, I get down/ I gotta get around to Babylon/ Let’s go to Babylon boys/ Two girls for every boy/ Well a Babylon girl aint got no past/ The Babylon girl gots to talk so fast/ The Babylon men gonna be a boy/ With the Babylon girl out lookin for a joy/ (In) Babylon/ (I gotta get away, to) Babylon/ (Beggin I can’t stay) Babylon/ (Havin to much fun) Babylon…” Parole e musica venivano dallo stereo di una qualche testa di cazzo sicuramente drogato e alcolizzato a vita. Il buio era pece, non una stella in cielo. Il caldo: osceno. Il cane doveva aver cagato di brutto. Stava bello in piedi adesso, con passo sicuro, mostrando i denti feroci, ringhiando. Gli passai accanto carezzandogli il pelo irto e duro sulla schiena con il palmo della mano. Gran bella bestia.
Quel martedì 13 era finito. E tutto doveva ancora iniziare.
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